Quando si parla di classici, due cose capitano anche a chi legge spesso e volentieri: lasciarsi intimorire dalla mole di certi tomi e, che sia per diretta conseguenza o meno, dire di aver letto un determinato testo quando in realtà non è (ancora) così.
E se vi dicessimo che l’estate è il momento ideale per superare entrambe le impasse in un colpo solo? A volte basta trovare la chiave giusta – e, nel caso di opere straniere, una traduzione capace di appassionarci – e anche i romanzi più lunghi diventano una piacevole sorpresa.
Non sempre, d’altronde, dopo una giornata di lavoro o durante un breve periodo di vacanza è una lettura breve a salvarci la giornata: sapere di avere sul comodino una storia articolata e sviscerata nei minimi dettagli ad aspettarci può essere una fonte altrettanto stimolante di divertimento e di apprendimento.
In questo i classici sono a dir poco perfetti, perché aprono nuove strade del pensiero e ci aiutano, con la loro profondità e complessità, a venire a capo di stati d’animo, visioni del mondo, riflessioni e modi di essere, trasformandosi in dei veri e propri compagni di viaggio.
Ecco quindi cinque consigli da cinque diversi Paesi da cui partire, per ognuno dei quali proviamo a darvi qualche indicazione di massima nella speranza di incuriosirvi e di guidarvi verso una scoperta non solo avvincente, ma soprattutto impossibile da dimenticare…
Jane Eyre
Iniziamo da un romanzo di “sole” 536 pagine, che potete trovare facilmente nella traduzione di Ugo Dèttore per Garzanti. E iniziamo da questo perché, al di là della sua lunghezza, Jane Eyre ha una voce narrante irresistibile: quella di una giovane indipendente e istruita, che è onesta con sé stessa e in grado di fronteggiare il moralismo del suo tempo con un’eccezionale forza interiore.
Non a caso, è dalla sua prospettiva che Charlotte Brontë (1816-1855), al di là della travagliata storia d’amore con mister Rochester, ci costringe a guardare da vicino le violenze familiari, sociali e politiche dell’epoca – cioè perpetrate rispettivamente ai danni di minorenni, disabili e donne di ogni età, per non parlare degli scontri generazionali e di classe di cui è testimone (e spesso vittima) la protagonista.
Tra malattie mentali, abusi, reclusioni e famiglie monche, ci accorgiamo allora di quanto l’Inghilterra vittoriana cozzi con il carattere franco e spontaneo di Jane, con le sue passioni divoranti e con le sue parole cristalline: più ci racconta la sua quotidianità, più noi riusciamo a misurare il suo valore nella distanza tra lei e il mondo che la circonda, ammirando proprio per questo l’affinità elettiva che si sviluppa con il suo innamorato e datore di lavoro.
A un certo punto noteremo allora che non stiamo leggendo una variante intellettuale del genere rosa, bensì un romanzo-affresco, che sa analizzare i ruoli di potere e i sentimenti umani più reconditi con grande realismo, ribaltando e smentendo ogni nostro cliché sull’argomento. Dopotutto, è stato scritto proprio per chi sa che il nostro lato animalesco si nasconde dietro ogni azione, e che solo imparando ad ascoltarlo smetteremo un giorno di averne paura.
Don Chisciotte della Mancia
Don Chisciotte della Mancia, lo saprete anche voi, è celebre per aver preso in giro i romanzi cavallereschi, anche se sotto sotto lo fa perché li ama troppo. Ed è altrettanto celebre per aver preso in giro la società, negandola e ricreandola attraverso i suoi occhi da “pazzo” – anche se in fondo, così facendo, prende in giro soprattutto sé stesso, abbandonando il suo nome e diventando un cavaliere magro, sgraziato, vecchio e fragile.
Per di più, combatte contro forze oscure che spesso si inventa di sana pianta, ma perfino Sancho Panza dopo un po’ si rende conto che fuori da quel gioco delle parti ci sarebbero altri giganti da sconfiggere sotto le mentite spoglie di un mulino a vento. Combatte e nel frattempo viaggia, don Chisciotte, attraversando la Spagna nelle maniere più fortuite. E puntualmente si caccia poi nei guai o si lascia raccontare ogni sorta di leggenda, mentre continua a coltivare quella del suo amore per l’eterea Dulcinea.
In fin dei conti, però, per quanto sgangherato e pieno di pericoli sia, nel suo mondo tutto può quadrare davvero. Tutto può condurre a un lieto fine, con tanto di Musa ispiratrice, nemico acerrimo e isola da governare nella bambagia. E ha dunque la forma di un romanzo-carnevale, quello ricamato con ironia da Miguel de Cervantes (1547-1616), nel quale l’unica vita possibile sembra essere ispirata dai libri, capaci come sono di offuscare per un po’ le brutture della realtà.
Ecco perché, se vi procurerete la traduzione di Angelo Valastro Canale per Bompiani, vi ritroverete davanti a 2166 pagine (con testo originale a fronte) di stupefacente ingegno, che grazie alle assurde avventure del suo protagonista prova a prendere in giro perfino noi, che abbiamo paura dei romanzi così lunghi e che invece ci ritroveremo fin da subito a saltare da un capitolo all’altro alla velocità della luce.
Il Conte di Montecristo
Edmond Dantès è giovane, pronto a diventare comandante di una nave e a sposare la sua innamorata, la catalana Mercédès. Peccato che la sua ingenuità, la sua fortuna e il suo talento attirino presto l’invidia di alcuni presunti amici, e che lui si ritrovi in un incubo senza fine, incastrato prima e incarcerato poi, con la possibilità di fuggire per il rotto della cuffia solo molti anni dopo.
Da qui in poi, Alexandre Dumas (1802-70), che vi consigliamo di leggere nella traduzione di Lanfranco Binni per Garzanti, sceglie di percorrere una strada anomala e, anziché concludere il romanzo con il provvidenziale ritorno del protagonista (nel frattempo diventato padrone di un’enorme e imprevista ricchezza), decide di dipingere Dantès come un uomo sfaccettato e moderno, che quando scopre il tranello in cui era caduto da ragazzo decide di consacrare la sua esistenza a una lenta e intricata vendetta nei confronti dei suoi nemici.
In altre parole, seguire le sue imprese significa oscillare fra l’ammirazione e lo sgomento, fra l’empatia e la repulsione, fra la comprensione e l’incredulità, perché il piano di Dantès, che torna in incognito sotto il nome di Conte di Montecristo, si fa via via più maligno, spietato e torbido. Impossibile seguirlo o prevedere le sue mosse: ci si deve necessariamente affidare all’autore, che con la sua conoscenza di veleni, intrighi nobiliari e bassezze umane porta chi legge a provare a sua volta un feroce desiderio di riscatto.
Il suo, quindi, è un romanzo-palazzo, pieno di menzogne e di doppiezze, nel quale i buoni di cuore si contano sulle dita della mano ma rimangono dei punti di riferimento incrollabili rigo dopo rigo, pericolo dopo pericolo. Sì, perché non mancano certo i colpi di scena, le astuzie e i sotterfugi, in un’ampia rete di famiglie e di relazioni pubbliche che non fa staccare gli occhi dal libro fino all’ultima delle sue 1313 pagine.
Anna Karenina
Ci spostiamo adesso in Russia, ma restiamo a stretto contatto con i sentimenti più contorti dell’animo umano. Qui a capeggiare sono soprattutto quelli amorosi, in un gioco di specchi che vede alternarsi diverse coppie: Anna e Vronskij, Anna e Karenin, Kitty e Lëvin, Dolly e Stiva. Questo, però, probabilmente lo sapete già. Come sapete già di tradimenti, balli, vita mondana, suicidio finale… A che serve allora leggerlo da cima a fondo?
Serve specialmente a scoprire che non è tutto qui. Che non sarebbe stato necessario pubblicare 897 pagine per raccontare l’ennesima deriva del bovarismo. Che l’umorismo di Lev Tolstoj (1828-1910), se non andate oltre il celebre incipit di Anna Karenina (in italiano ritradotto da Claudia Zonghetti per Einaudi pochi anni fa), non potrà rivelarsi a voi in tutta la sua tragica comicità. E serve a scoprire che vi affezionerete ad Anna prima ancora di capire cosa accadrà con Vronskij, e che poi la disprezzerete per come si comporta con suo marito.
Quando penserete di averla perdonata, intelligente e consapevole come vi sembra, riceverete l’ennesimo colpo di grazia e la seguirete, senza capirla, perché anche su di voi il legame con Vronskij ha ormai una potenza magnetica. E intanto sentirete l’amara leggerezza della vita di Dolly e Stiva, arriverete a commuovervi per la tenerezza con cui Kitty si riavvicina a Lëvin, imparando a sue spese cosa significa crescere, per poi ritrovarvi a capire perfino le ragioni di Karenin, quando realizzerete che non ha il cuore primitivo di cui lo avevate dotato.
Insomma, Anna Karenina è un romanzo-cuore, che ci costringe a ripercorrere lo storico delle nostre insicurezze, fantasie, angosce ed eccitazioni. E, per di più, è un romanzo privo di personaggi monolitici e di sviluppi canonici. Al contrario: resta imprevedibile fin oltre la sua conclusione annunciata, ricordandoci che possiamo essere infantili, brutali, amabili e irascibili, il tutto nel tempo dello stesso valzer.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana
Questo forse non vi sembrerà a prima vista un “mattone” nel senso stretto del termine, ma, pur non avendolo letto da cima a fondo, saprete già che la lingua di Carlo Emilio Gadda (1893-1973) è così densa e tortuosa da rendere faticose anche le 380 pagine del suo Pasticciaccio (consigliato nell’edizione Adelphi curata da Giorgio Pinotti). Sfatiamo subito un mito, però: faticose, nel caso di Gadda, non è affatto sinonimo di respingenti.
Sono pagine faticose perché ricche di parole inventate, o ripescate da vie etimologiche poco battute. E per lo stesso motivo sono gustose, strabilianti, al punto da farci credere che il romanesco e l’italiano, nelle mani del loro autore, siano capaci delle più grandi prodezze auliche e triviali, sarcastiche e funeste. Quella che parte come l’indagine di un giallo ambientato nella Roma del 1927, d’altronde, ci costringe a precipitare in un mondo perturbante e sfaccettato, in cui niente, nemmeno una singola parola, è davvero come sembra.
Quel che è peggio, poi, è che neanche il giallo si rivela essere un vero giallo, così come i personaggi da cui è popolato il romanzo esistono solo in funzione delle loro contraddizioni, in un enorme guazzabuglio (anzi, un brutto pasticciaccio, nel vero senso della parola) di destini e di desideri. Potrà quindi don Ciccio Ingravallo pretendere di sbrogliare la matassa, davanti a tante voci che si sovrappongono e che vogliono confondergli le idee?
Gadda stesso ha paura di rispondere, allunga i tempi e spariglia le carte pur di farci assistere all’ennesimo dialogo, a un flashback senza capo né coda, a un ritratto degradato della Capitale e dei suoi tipi umani, fino a quando sia noi sia don Ciccio non avremo capito il motivo di tanti indugi, di tanta complessità e dei nostri sorrisi a mezza bocca tra un paragrafo allucinogeno e l’altro – e cioè che il Caos è già indomabile per chi i gialli li deve risolvere, figuriamoci poi per chi i gialli li deve scrivere o addirittura vivere.
Fonte: www.illibraio.it