“La collana di cristallo”: nel decimo romanzo di Cristina Caboni la magia di Murano

di Redazione Il Libraio | 06.10.2023

La collana di cristallo (Garzanti) è il decimo romanzo di Cristina Caboni, autrice di successi come Il sentiero dei profumi, La custode del miele e delle api, Il giardino dei fiori segreti, La rilegatrice di storie perdute, La stanza della tessitrice, La casa degli specchi, Il profumo sa chi sei e La ragazza dei colori, e che lo scorso anno ha proposto La via del miele.

In questo nuovo libro l’autrice, che vive in provincia di Cagliari, dove si occupa dell’azienda apistica di famiglia, ha scelto il fascino di Murano per raccontare la storia di una ragazza che scopre la propria forza guardando alle donne che, prima di lei, hanno provato a farsi strada, e a un futuro che non fa paura, ma è pieno di voglia di vivere.

Il vetro soffiato si gonfia in attesa di prendere forma: è quasi una magia e, quando la meraviglia si realizza, Juliet si sente forte e al sicuro. I suoi famigliari la fanno sentire sempre fuori posto, non accettano il suo mondo fatto di creatività, perché per loro la cosa più importante è la razionalità. Per questo non vogliono che parta per Murano, dove è stata ammessa alla scuola per vetrai più prestigiosa del mondo. Ma Juliet non sente ragioni, se non quelle del cuore, e non rinuncia all’opportunità di realizzare il suo sogno più grande, anche se questo vuol dire trovarsi da sola dall’altra parte dell’oceano.

Cristina Caboni, nella foto di Yuma Martellanz

Con sé ha un amuleto, una collana di cristallo che la tata di famiglia le ha affidato sussurrandole parole misteriose: “È tua, perché le somigli così tanto”. Juliet non ha idea di cosa significhi ma, arrivata nella colorata isola attraversata dai canali, sente che il gioiello le dà la forza di affrontare una sfida in cui non mancano ostilità e pregiudizi, perché lei è l’unica ragazza ammessa. Ma soprattutto le fa dimenticare la paura di non essere all’altezza. Ciò che non si sarebbe mai aspettata è che in una delle perle di cristallo sia incastonato lo stesso stemma che spicca sul palazzo che ospita la fornace.

C’è un segreto che deve scoprire. Un segreto che lega la sua famiglia a un diario in cui sono custodite geniali formule per lavorare il vetro e a una donna di Murano vissuta nel secolo scorso. Ad aiutarla c’è Marcus, il direttore della scuola: insieme si perderanno tra le calli incantate in cerca del passato, ma soprattutto in cerca di sé stessi.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

 5.

Per “cristallo di Venezia” si intende un vetro di altissima qualità, realizzato dai più abili maestri che da oltre sette secoli si tramandano generazione dopo generazione i segreti di famiglia.
Il vetro, straordinariamente trasparente, assume l’aspetto
del cristallo; la sua purezza, unita alla sapiente lavorazione,
è prescelta soprattutto per la realizzazione di specchi e lampadari, splendide opere d’arte famose in tutto il mondo.

Juliet aprì gli occhi e li richiuse subito. Poi li spalancò e si tirò a sedere sul letto. I ricordi della giornata passata le tornarono in mente, travolgendola. «Che disastro», sussurrò, eppure sorrideva.

Come sempre, aveva lasciato le imposte aperte, e ora il sole inondava la camera. Non aveva avuto modo di osservarla con attenzione al suo arrivo, così si prese del tempo per esaminarla. Era ampia, con il soffitto alto e affrescato. Le era capitato di ammirarne di simili in alcune riviste specializzate, quasi non riusciva a credere che fosse tanto bella. Sul letto, al centro della stanza, era poggiato un copriletto di damasco bianco, a ridosso della parete c’erano un tavolino e, accanto, un armadio in legno chiaro con uno specchio sull’anta. La scrivania era sotto la finestra.

Sbadigliò e si scoprì affamata. Sapeva dov’era il bagno e, dopo essersi lavata il viso, prese un asciugamano morbido che profumava di lavanda. Quando sorrise allo specchio quasi non si riconosceva. Erano gli occhi a essere diversi, la loro luce. Si sentiva calma, felice. Uscì dal bagno più allegra di quando ci era entrata. Mentre svuotava la valigia e appendeva gli indumenti nell’armadio, continuava a scoprire piccoli dettagli intorno a sé. La poltroncina in damasco, la tenda ricamata, il lampadario da cui pendevano ghirlande fiorite. I libri allineati sulla mensola avevano l’aria di essere molto antichi. Affascinata, lasciò perdere i vestiti per osservarli da vicino. Passò l’indice sui dorsi. Ne tirò fuori uno, lo aprì. Marietta Barovier e la sua storia. Chissà chi era, pensò. Quel nome le era familiare anche se non riusciva a ricordarsi dove l’aveva sentito. Frugò nella memoria, poi ripose il volume al suo posto. Stava per prenderne un altro quando sentì una vibrazione. Il cellulare sul tavolo emetteva dei suoni soffocati. Che ore potevano essere? Controllò se avesse terminato di ricaricarsi. Mentre osservava il display sospirò. C’erano decine di chiamate senza risposta. Inviò un messaggio ai genitori e poi, mentre stava per metterlo giù, cambiò idea.

– Ciao Marcus, come stai? Grazie ancora per ieri. È stato fantastico

– Buongiorno! Figurati, se hai bisogno di qualcosa sai dove trovarmi

Non si aspettava una risposta così rapida. Sorrise e tornò in bagno. Le serviva una doccia, una buona colazione, e… lui. Vederlo, parlargli. Ringraziarlo.

Mentre l’acqua si portava via le ultime tracce di sonno, uno scrupolo si fece largo tra i suoi pensieri. Non avrebbe dovuto disturbarlo, chissà quante cose aveva da fare, e poi l’aveva già seccato oltremodo, e il fatto che lui fosse stato così gentile non l’autorizzava a infastidirlo ulteriormente. Perché doveva essere sempre così… appiccicosa?

Asciugò i capelli, scelse una camicia rosa e dei pantaloni bianchi, scarpe basse e comode. Agganciò alla vita un piccolo marsupio con la carta di credito. Un’ultima occhiata allo specchio, poi si chiuse la porta alle spalle e, una volta in corridoio, pensò a quanto fosse stata fortunata. Sarebbe potuta finire male. Si era messa nei pasticci, esattamente come aveva previsto Paul. Scese i gradini lentamente, il capo chino.

«Come mai quella faccia?»

Sollevò la testa di scatto. Marcus era fermo al centro dell’atrio, la guardava perplesso.

«Ciao.» Continuò a scendere la scala. Era felice di vederlo.

«Problemi con la sistemazione?» le chiese.

«Come? No, assolutamente. È tutto perfetto.»

Lui scosse la testa. «Non mi pare, sei triste.»

Non era una domanda. Juliet si sforzò di sorridere. «Qualche pensiero, niente di importante.»

Lui annuì, fece per andarsene ed era già arrivato alla porta quando rallentò fino a fermarsi. La guardò dietro la spalla. «Ti va di accompagnarmi? Devo spedire un paio di pacchi, così ti faccio vedere i dintorni.»

Non aveva fatto colazione, ma lui le stava sorridendo e lei moriva dalla voglia di visitare Murano. «Certo.»

Marcus allungò il braccio verso di lei, il palmo proteso. «Prima però andiamo a mangiare.»

Posò la mano sopra la sua, era calda. «Ho fame.»

«Anch’io.»

Sul portone d’ingresso incontrarono un uomo. Juliet pensò che lui e Marcus dovessero essere parenti, la somiglianza era notevole.

«Papà, lei è Juliet, la nostra studentessa americana.»

«Buongiorno.» Mentre lo salutava, le sembrò che l’uomo fosse a disagio. Lei lo era di sicuro.

«Piacere di conoscerla, signorina.»

La voce era gradevole, come il tono. L’uomo le rivolse un sorriso e Juliet si rilassò. Il padre di Marcus probabilmente era solo un po’ timido.

D’un tratto la sua espressione mutò. Il volto perse ogni traccia di gentilezza facendosi di pietra. «Chi le ha dato quel gioiello?» le chiese a bruciapelo.

Marcus sollevò gli occhi al cielo e Juliet istintivamente gli si accostò. Non si era accorta che la collana di perle di vetro le era scivolata fuori dalla camicia, la riportò sotto la stoffa. «Appartiene alla mia famiglia. È molto antica. In realtà dovrei custodirla meglio ma mi piace molto e così la indosso sempre.»

Lui continuava a fissarla. Sembrava volesse aggiungere altro, e Juliet ebbe quasi l’impressione che gliela volesse strappare dal collo. Marcus però intervenne. Salutò il padre e la prese per mano.

«Perdona i suoi modi, in genere è molto più amiche­vole.»

Juliet si sforzò di sorridergli. «Certo.» Possibile che si fosse espressa male? Gli aveva parlato in italiano… probabilmente aveva sbagliato qualche termine.

Eppure, mentre uscivano dal palazzo si chiese se quell’uomo sapesse qualcosa riguardo alla sua collana. Avrebbe potuto chiederglielo, pensò. Magari più avanti, dopo aver fatto un po’ di amicizia.

Dopo un pranzo veloce in una piccola trattoria dei dintorni – l’ora della colazione era passata da un pezzo –, Marcus le fece fare un giro. «Sono sette piccole isole, in realtà. Unite da ponti, e altre due sono artificiali.»

Non ci aveva fatto caso immersa com’era nella contemplazione di tutte le botteghe che esponevano oggetti di vetro. I negozi si affacciavano sulle strade e Juliet era rapita dai colori e dalla varietà delle opere. Vasi, bicchieri, animali, ognuno aveva una forma, una struttura che la incantava e mentre li osservava le sembrava di vedere il maestro vetraio realizzarli davanti al fuoco della fornace, le mani rapide e leggere come quelle di un mago.

«Vieni, andiamo per di là.» Marcus le indicò la via dei vetrai. «Qui ci torneremo dopo. Prometto di mostrarti ogni angolo.»

Lo guardò consegnare i pacchi al corriere che si spostava su una barca, come quelle che trasportavano le merci. C’era chi ritirava i rifiuti, chi consegnava le provviste. Era tutto così diverso da qualsiasi altra città che Juliet avesse mai visto. I libri riportavano notizie, davano consigli sugli itinerari migliori, ma quella che stava provando era un’emozione di altro genere. Qualcosa che si provava solo se la si viveva di persona.

Rispetto al centro di Venezia, Murano era molto più tranquilla. Nonostante l’afflusso di turisti c’era una sorta di serenità tra quelle calli e i canali. Il tempo era scandito dal passaggio del vaporetto che trasportava i passeggeri, persone che scendevano e salivano con macchine fotografiche al collo, cellulari tra le mani, gli occhi che sembravano non averne mai abbastanza.

«Sei giovane.» Lo disse all’improvviso, dopo averlo osservato a lungo.

Marcus le lanciò un’occhiata perplessa. «Anche tu.»

Juliet ridacchiò. «Per essere il direttore della scuola…» precisò. «Scusami, è che spesso penso a voce alta, non hai idea delle cose che posso dire senza rendermi conto.»

«Sei una ragazza particolare, Juliet Meriwether.»

«Sono anche mezza italiana. Mio nonno lasciò l’Italia quando era giovane…»

«Dunque il tuo è un ritorno?»

Lo era? si chiese Juliet. «No, francamente nessuno è interessato alle nostre origini a parte Gina.»

«Tua nonna?»

«Una specie. È lei che mi ha dato la collana.» La tirò fuori, facendola dondolare davanti a sé. «Rideresti se ti dicessi che indossarla mi fa stare… meglio?»

«Perché dovrei farlo? Ognuno ha i suoi portafortuna. Io, per esempio, colleziono vecchie musicassette.» La sfiorò con la punta delle dita, studiandola con attenzione. «È molto antica… direi almeno un paio di secoli.»

Sì, anche lei ne era convinta. «Mi piacerebbe saperne di più sul suo conto.»

Lui aggrottò la fronte e Juliet intuì il genere di domande che si stava facendo. In realtà se le era poste anche lei. Perché a darle la collana era stata Gina e non suo padre? Era come se i suoi genitori ne ignorassero persino l’esistenza. E quello la impensieriva.

«La mia famiglia è molto… orgogliosa di quello che ha realizzato. Il passato per loro non conta. Sono tutti medici di grande successo, a parte me.»

«Loro non apprezzano il fatto che tu sia un’artista?»

Il sorriso le morì sulle labbra. «Già. Non sono esattamente orgogliosi di quello che faccio.» Marcus aveva compreso ogni cosa senza dovergliela spiegare. Juliet socchiuse le labbra, ma non aggiunse altro. Non voleva parlare di quello né della sua famiglia. La disastrosa cena di qualche giorno prima era ancora penosamente reale. Come lo era la conversazione con Daniel. Nonostante tentasse di ignorare il dolore che provava, suo fratello era sempre sul margine dei suoi pensieri. Distolse lo sguardo posandolo su una delle opere più belle che avesse mai visto. Al centro di uno spiazzo, circondata da un cordolo, una scultura di vetro governava la scena. Era come un fuoco blu dal quale le fiamme si levavano alte e immense in riccioli bianchi. «È un materiale così fragile, eppure così potente», disse fermandosi davanti alla scultura.

«La fragilità è bellezza.»

Dovette resistere alla tentazione di allungare la mano e sfiorare l’opera. «In un certo senso credo che tu abbia ragione», sussurrò.

Camminavano uno a fianco all’altra lungo le fondamenta dei Vetrai, una delle vie pedonali che costeggiava il Canal Grande di Murano. Marcus le aveva già mostrato una chiesa importante, San Pietro Martire. Quella che guardava adesso dal di fuori era la basilica dei santi Maria e Donato. In quei luoghi, una volta all’anno si celebrava la festa dei vetrai. Le sarebbe piaciuto partecipare alla benedizione degli artigiani che però aveva luogo a dicembre. Lei sarebbe già stata di ritorno a Seattle in quel periodo. Ma non voleva pensare a quello. Era ancora incantata dalla luce morbida, dai colori dei mosaici, dal raccoglimento interiore che le aveva suscitato il santuario. Nonostante Gina le avesse insegnato le preghiere lei non aveva mai frequentato una chiesa. Credeva nella bellezza, nella bontà e nella gentilezza. Credeva nelle persone generose, un po’ come quel ragazzo che continuava a indicarle monumenti, dimore patrizie, e che a un tratto si fermò, sorridendole.

«Questo è palazzo Da Mula, uno dei più antichi e ben conservati di Murano.»

© 2023, Garzanti S.r.l., Milano

(continua in libreria…)

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Fonte: www.illibraio.it