La forza dell’amore e la lotta per un futuro migliore

di Redazione Il Libraio | 10.09.2016

Si dice che l’amore superi ogni ostacolo. Per Tibor, giovane medico ebreo protagonista di La promessa del tramonto (Garzanti), è questa l’unica speranza a cui aggrapparsi. Tibor ha passato la sua vita scappando. Prima dalle leggi razziali dell’Italia fascista e dai campi di lavoro della seconda guerra mondiale. Poi dall’odio strisciante dell’Ungheria del 1951, in cui imperversa la dittatura stalinista.Un regime che un uomo come lui non può accettare.

La sua colpa è sempre stata una sola: quella di esistere. Anche nascosto in un ripostiglio buio di una nave che dovrebbe portarlo verso la libertà, la luce che illumina il suo cammino è lei, Sara. La donna per cui ha rischiato tutto. La donna che ha cambiato la sua esistenza con uno sguardo. La donna che lo aspetta, già in salvo, in Italia.

La guerra e la famiglia di Sara, che non credeva nella forza dei loro sentimenti, hanno provato a dividerli. Ma nessuno è riuscito a spezzare il legame che li unisce, e ora Tibor sta cercando di raggiungerla. Vuole costruire, per loro e per i loro figli, un futuro migliore. Perché Tibor e Sara si sono scambiati una promessa: riconquistare, nonostante tutto, la felicità che si meritano. La felicità che si meritano i loro figli.

Insieme hanno combattuto. Hanno sfidato la violenza e l’orrore. Hanno superato notti infinite e pericolose. Ma non hanno mai dimenticato chi sono. E hanno capito che, finché saranno una cosa sola, nessuno potrà togliere loro la dignità e il coraggio.

Nicoletta Sipos, giornalista e scrittrice nata in Ungheria, ha scritto un romanzo in cui racconta la storia vera di un uomo e di una donna capaci di lottare anche quando tutto sembra perduto, fino all’ultimo respiro. Perché se si è in due nulla è impossibile.

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un capitolo tratto dal romanzo.

A bordo della Veszprém
16 novembre, ore sei e trenta

Secondo giorno sulla nave. Lento risveglio dopo una notte agitata. Tibor apre gli occhi, trova a fatica il filo di luce che attraversa il buio, riprende coscienza della situazione, ascolta il respiro delle due donne e il mugolio del bambino attaccato al seno della madre che cerca di tenerlo tranquillo. Sulla nave non si sentono rumori sospetti, nessuno li cerca. Il dottore inghiotte a vuoto, alza la testa, respira a fondo, apre le spalle rattrappite, prova sollievo a sentire la schiena che si raddrizza. È l’inizio di un nuovo giorno che dovrebbe essere l’ultimo sulla nave. Anzi: sarà sicuramente l’ultimo. La nave dev’essere ormai a poche ore da Vienna. È fatta, o quasi, saranno presto liberi. Anche se nulla è scontato. Se fossero scoperti, cosa che ragionevolmente non si può ancora escludere, userebbe la pistola contro l’uomo dell’AVH o contro sé stesso. Non intende finire i suoi giorni in un lager comunista dopo gli anni nei campi di lavoro. L’ha deciso prima di salire a bordo della Veszprém, tant’è che ha portato con sé la vecchia Femaru. Si impone di pensare che non ha paura del gesto finale, dopo tutto è un uomo d’azione: saprà prendere in mano la sua vita con la giusta forza.
«Tutto bene?» Olga si rivolge solo al dottore ignorando la sorella. Gli echi del litigio di poco fa sono ancora nell’aria.
«Sono invecchiata di vent’anni in due giorni», mormora Judit. Anche lei è provata dalla discussione, ma non ritratta una virgola di quanto ha detto e, anzi, chiama Tomy «quel criminale di tuo marito».
«Torneremo giovani appena saremo fuori da qui», promette Tibor nel tentativo di infondere coraggio alle compagne e, ovviamente, a sé stesso.
«Sono in pena per mio figlio. Ho la brutta sensazione che Dio voglia punirmi facendo soffrire lui», sussurra Judit. «Anche se io non ho fatto nulla di male.»
«O troppo male.» Olga resta fedele al vizio di correggere la sorella.
Con sollievo del dottore, Judit non reagisce. Il silenzio è preferibile a una nuova lite.
Dopo una lunga pausa degna di un consumato giocatore di scacchi, Olga ammette: «Io, invece, mi riconosco la colpa di averti affibbiato Grosz».
«Non è stato un dispetto. Árpád è una brava persona, ci vogliamo bene.»
D’abitudine Tibor evita di scavare nelle vite degli altri, ma lo strano triangolo che lega le due sorelle ad Árpád Grosz l’ha incuriosito e non gli dispiacerebbe saperne di più. L’oscurità del nascondiglio, la vicinanza dei corpi, l’intimità nata durante quella sfortunata traversata danno il via a confidenze che in altre circostanze il buon senso vieterebbe.
«Eravamo a scuola insieme.» Olga scopre le carte senza farsi pregare. «Quando avevo sedici anni è stato lui il mio primo fidanzato. Abbiamo resistito due anni. Poi lui è passato al collegio navale, io mi sono iscritta a un corso per segretaria e abbiamo voltato pagina senza rancore.»
«L’ho ritrovato io, per puro caso.» Judit è ancora tesa, ma pronta a dire la sua. «All’inizio sembrava una storia senza importanza…»
La risata di Olga non ha nulla di allegro e finisce in un singhiozzo.
Non vedersi in faccia nel buio del nascondiglio smorza il pudore e rende più facile continuare quel colloquio che diventa sempre più intimo.
«Quando ho capito che stava diventando qualcosa di serio, sono venuta di corsa a parlarti.» La voce di Judit è ridotta a un sussurro.
«E io ti ho dato la mia benedizione. Cos’altro potevo fare?»
«Potevi dirmi di no, sarebbe stato più onesto.»
«Sembravi così felice, così convinta d’avere trovato l’amore vero.»
«Non ho cambiato idea.»
«Io avevo conosciuto Tomy proprio in quei giorni, sognavo un rapporto forte con lui, qualcosa che durasse in eterno. Poi però…»
«Però?»
«Qualcosa è cambiato quando ho rivisto Grosz dopo tutti quegli anni. Mentre ci abbracciavamo ho pensato che forse avevo sbagliato a lasciarlo. Ma era troppo tardi per tornare indietro.»
«Giusto», mormora Tibor. Non osa aggiungere che anche in quel legame vede la ricetta per un disastro.
«Sono dimagrita di otto chili, non riuscivo più a mangiare. Tomy vedeva che stavo male e cercava di consolarmi. Con il tempo ha cominciato a cambiare: era geloso, temeva di perdermi. E… sì, mi ha anche picchiato, più di una volta. Ma non ce l’ho con lui per questo, era disperato.» Le parole di Olga si perdono nel buio. «Il bello è che Grosz non ha mai sospettato niente.»
Vecchi rancori bruciano sotto le parole. Judit freme, Tibor cerca di rendersi invisibile, ma non può fare a meno di ascoltare: la fantasia della vita continua a stupirlo.
«Ci perdoni, dottore, la stiamo coinvolgendo nelle nostre beghe», sussurra Olga.
Un movimento improvviso lo strappa ai suoi pensieri. Judit scivola in avanti con il figlio in braccio, e il bambino finisce contro la parete che confina con la sala macchine. Il piccolo urla, dev’essersi spaventato a morte, ma non è solo spavento. La parete brucia e l’ha scottato malamente. L’urlo si trasforma in un lungo pianto di dolore. Ferdi strilla a pieni polmoni, come solo i bambini possono fare, sfoga urlando
dolore, sorpresa e rabbia. I suoi acuti forano l’aria ed escono dal gabbiotto superando in intensità tonfi, sbuffi e cigolii della vecchia nave che avanza a fatica nel Danubio in tempesta.
È mai possibile che la passino liscia anche questa volta? La risposta è presto servita. Dal corridoio arrivano latrati ostinati, quasi isterici, del cane di Andrási e le voci che i clandestini temevano da un pezzo.
«Possibile che solo tu, compagno capitano, non abbia sentito nulla?»
«Non ho tempo per inseguire fantasmi, te l’ho già detto.»
«Era un grido, ti dico! Uno strillo acuto di donna o di bambino. L’ha sentito pure il mio cane. E veniva proprio dalla tua cabina…»
«Entra pure, se ci tieni. Aprirò una bottiglia della migliore pálinka per te. Anzi, dividerò con te il pörkölt che ho portato da casa. La carne è bella grassa come piace a me, e mia moglie l’ha cotta con doppia dose di panna acida e paprika.»
Il cane raspa e uggiola, sembra davvero arrabbiato, ma Grosz lo ignora. Nel buio del nascondiglio i clandestini trattengono il fiato aspettando la risposta del poliziotto. L’audacia del capitano li sta portando una volta di più verso la catastrofe. Entrando nella cabina di Grosz l’uomo dell’AVH si troverebbe a meno di un metro da loro, per di più con un cane al seguito. E allora potrebbe succedere di tutto. Il dottore sente il sudore che gli cola lungo le tempie, avverte la paura di Olga e la confusione di Judit. Ma la nave riprende a beccheggiare e all’improvviso l’uomo dell’AVH non ha voglia di cibo. «Sarà per un’altra volta», dice con un filo di voce che nulla toglie alla minaccia sottintesa.
«Tanto, resteremo insieme per un pezzo.»
«Vanno via», sussurra Olga.
Tibor deve farsi forza per non aggiungere che questa volta ci sono andati davvero vicini, che la sua fiducia nel futuro arranca, che l’ottimismo di cui si è spesso vantato durante la prima giornata di viaggio comincia a esaurirsi. Rinuncia a condividere questo pensiero non proprio allegro, e approfitta del filo di luce del mattino per controllare la bruciatura del piccolo Ferdi. Il bimbo singhiozza piano mentre il medico lo spoglia, le due donne aspettano il responso con comprensibile ansia.
Olga prende dallo zaino un tubetto di crema e ne spalma un po’ sulla pelle ustionata. Ma il rimedio serve a poco, Ferdi continua a lamentarsi miagolando come un gattino.
«Doktor úr, può fare qualcosa?» Judit trema di paura.
Tibor prende la siringa e il calmante, poi si ferma. Non deve agire alla leggera: una dose eccessiva di farmaco potrebbe compromettere la vita del bambino, ma in qualche modo deve intervenire, ne va della sopravvivenza di tutti. Così procede con l’iniezione muovendosi al buio con mille cautele, e aspetta che Ferdi scivoli in un torpore drogato, cacciando indietro rimorso e paura.
«Non sarà troppo, vero?» Judit deve alzare un poco la voce per farsi sentire nel mezzo della tempesta.
«Certo che no!» Tibor ha più d’un dubbio, ma a cosa servirebbe parlarne? «Tranquille, il bimbo sta già meglio.»
Non ha faticato a convincerle. È l’uomo della speranza, ha sempre dato forza a chi gli stava vicino, la sua fiducia nel futuro è contagiosa.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it