La libreria dove tutto è possibile

di Redazione Il Libraio | 08.02.2018

L’autrice inglese Stephanie Butland ha passato gli ultimi anni a scrivere e lottare contro il cancro. E in Italia arriva il suo primo romanzo, La libreria dove tutto è possibile (Garzanti, traduzione di Elisabetta Valdré), in cui ci porta in una piccola libreria nel cuore di York, insieme alla sua protagonista dal nome delizioso, Loveday Cardew.

Butland, la libreria dove tutto è possibile

Loveday si sente coccolata e al sicuro solo tra le pareti della sua libreria: può prendersi cura dei libri, così come loro si prendono cura, da sempre, di lei. Attraverso la lettura, i passi degli autori, le scene di cui si innamora, riesce a comunicare le sue emozioni.

E la sua vita fila tranquilla, fino al giorno in cui comincia a ricevere dei pacchi da un mittente sconosciuto, ricolmi di libri, e non volumi a caso: poco alla volta riconosce i titoli con i quali è cresciuta. E la sua infanzia non è stata per niente facile e spensierata. Il mittente sembra conoscerla bene, così Loveday comincia a credere che qualcuno stia cercando di mandarle un messaggio. E intanto sale la consapevolezza che non può più nascondersi.

Dovrà affrontare il suo passato, ma non sarà da sola: Nathan, poeta in erba, è pronto ad aiutarla, qualunque cosa accada, con il coraggio che solo gli innamorati riescono a tirare fuori.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto

Una cosa che mi piace del Circolo dei lettori è che lo ospitiamo piuttosto che condurlo, e così bevo il tè, riordino e sto attenta a quando inizia la discussione sui libri, ma mi distraggo su tutto il resto. Mi dà la possibilità di fare quello che non riesco quando il negozio è aperto; è incredibile quanto riesci a combinare quando nessuno t’interrompe.

Archie sostiene che, se fosse per me, le librerie sarebbero disposte come le drogherie di una volta, con un bancone e gli scaffali dietro, per impedire agli scocciatori di mettere sottosopra il mio allestimento magnificamente ordinato. Gli dico che è ingiusto, anche se un esame di competenza libraria non sarebbe fuori luogo. Ma basterebbe qualche regola di base: rimetti il libro dove l’hai trovato, trattalo con rispetto, non rompere le balle alla gente che lavora qui. Non è così difficile, verrebbe da pensare.

Quando sono entrata, era tutto tranquillo. Era un po’ tardi, sia perché Brian Patten mi aveva portato via del tempo sia perché me la stavo prendendo comoda, con l’idea di attaccare alle undici. Capita spesso che mi trattenga dopo la chiusura, così Archie mi concede una certa flessibilità, tipo quando ho un capitolo urgente da finire. Arrivare in tarda mattinata non è mai un grosso problema. Dopo aver legato la bici, sono andata al bar adiacente per prendere un tè per me e un caffè per Archie, prima di cominciare a lavorare.

Se ignori i fiori di seta e i cartelli con le scritte ENTRA COME SCONOSCIUTO, ESCI COME AMICO, il Cafe Ami è un ottimo vicino.

Adoro varcare la porta di Giro di Parole: la libreria odora di carta e di fumo di pipa. Archie non fuma più in negozio, almeno ufficialmente. Sospetto che lo faccia quando non c’è nessuno. Tutti gli anni passati a tirare boccate senza interruzione da mattina a sera sono penetrati nelle pareti, nel legno e nelle pagine dei libri. C’è qualcosa nello stare in piedi circondata dagli scaffali che mi fa pensare di trovarmi in una foresta, anche se, adesso che faccio mente locale, non sono mai stata in una foresta. E se ci andassi, immagino che l’odore di fumo non sarebbe una bella cosa. Ho dato ad Archie il suo caffè.

«Grazie, mio preziosissimo braccio destro», ha risposto.

Archie è mancino e pensa che le sue siano battute divertenti. Gli ho lanciato uno sguardo sarcastico e gli ho frugato nel panciotto. C’è un bel pezzo di Archie sotto quel panciotto. Se qualcuno volesse pugnalarlo, gli servirebbe un coltello veramente lungo per arrivare a qualsiasi organo vitale. Ha prelevato la pipa. «Vado a prendere aria», ha detto. «Sii fantastica in mia assenza, Loveday.»

«Come sempre», ho replicato.

Ai lati della porta del negozio ci sono due finestre a bovindo, una delle quali occupata da uno scrittoio di quercia con due piani di cassetti. Archie sostiene di averlo vinto a Burt Reynolds in una partita a poker giocata alla fine degli anni Settanta, ma è molto nebuloso sui dettagli. Se tutte le storie che racconta fossero vere, Archie avrebbe quasi trecento anni: a suo dire, possiede la libreria da venticinque anni, è stato in Marina, ha vissuto in Australia, ha mandato avanti un bar in Canada con «l’unica donna che l’abbia veramente capito», ha lavorato come croupier a Las Vegas ed è stato in prigione a Hong Kong. Personalmente alla storia della libreria e (forse) a quella del bar posso crederci.

Lo scrittoio è bello, se riesci a vederlo sotto tutte quelle carte. La buca delle lettere è a sinistra della porta d’ingresso, un capo dello scrittoio è lì sotto, quindi a volte è coperto di opuscoli pubblicitari e della posta di tre giorni, prima che io lo sgomberi. Archie non fa altro che rimetterci sopra roba.

L’altro bovindo ha un piccolo sedile, comodo quanto sembra, cioè per niente. Chi è cresciuto con un classico della letteratura per ragazzi come Anna dai capelli rossi non può fare a meno di sedersi lì, ma non resiste a lungo. Penso che i sedili incastrati nei bovindo siano le tipiche cose fantastiche nei libri, come le fiere campestri nei lunedì di festa, il sesso, i viaggi e quant’altro.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it