“Il silenzio della marea” di Antonella Frontani: i misteri del passato tra i profumi della Liguria

di Redazione Il Libraio | 28.02.2025

Nera e Leandro sono due persone che, a prima vista, sembrano l’una l’opposto dell’altra. Lei è uno spirito libero, lui non esce dalla sua tenuta da anni. Ma, quando si incontrano, qualcosa nelle loro anime si smuove. Nera, infatti, è stata chiamata da Leandro per fare luce su una serie di scrigni antichi di grande valore.

Nonostante le difficoltà del lavoro – complice la stretta sorveglianza e il carattere schivo dell’uomo -, Nera si sente circondata dalla bellezza della villa a picco sul Mar Ligure nella quale si trova, e più passano i giorni, più capisce che Leandro in realtà è un’anima ferita.

Il silenzio della marea (Garzanti), il nuovo romanzo di Antonella Frontani, è una storia di equilibri precari e di vecchi ricordi: quando il rapporto tra Nera e Leandro sembra migliorare, due persone fanno il loro ingresso nella villa. È in quel momento che la donna sente, finalmente, di essere lì per qualcosa che va al di là del lavoro, ha capito che il passato di Leandro cerca di emergere

Giornalista e già autrice tra gli altri di Quando le stelle vengono meno (Garzanti, 2022) e Dopo la solitudine (Garzanti, 2018), Frontani propone una storia fatta di intrecci e riscoperte: tocca a Nera riuscire a scoprire la verità dietro quegli antichi scrigni e dietro il passato dell’uomo. Perché alla fine, la vita, come la marea, si muove inaspettata e travolge tutto, spazzando lontano i ricordi più dolorosi.

Il silenzio della marea

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

PROLOGO

Leandro

La vista del mare gli è insopportabile. Nulla lo insolentisce più dell’incresparsi delle onde. Di quel noioso, pedante fra­gore dell’acqua che raggiunge la battigia. Leandro fatica a far tornare a galla i bei ricordi, quelli legati al suo amore per il mare.

Da anni, vorrebbe incendiarlo. Potesse, lo farebbe…

Chiude con violenza i vetri dell’ampia finestra per sottrarsi a quel panorama.

Che infuri la tempesta…

Leandro non prova più interesse per le intemperanze del mare. Il rombo delle onde, quando si gonfiano a dismisura, lo lascia indifferente quanto lo sciabordio vellutato della ri­sacca contro la carena di un gozzo.

Non smetterà di suonare, neppure per chiudere l’imposta che, sbatacchiata dal vento, colpisce il muro con cadenza re­golare e insopportabile. Nulla, più della musica, può aiutarlo a ristabilire l’ordine naturale delle cose. Il suo mondo in sub­buglio, attraverso le note, trova di nuovo pace. Anche questa mattina sarà così.

Decide di accanirsi su un pezzo scritto per pianoforte a quattro mani nell’arduo tentativo di «ascoltare» nella mente l’altra esecuzione. È così che si tortura, a volte: chiedendo l’impossibile a sé stesso.

Ma mère l’Oye è l’opera con cui Maurice Ravel evoca l’in­fanzia fiabesca, non solo quella felice. È una partitura raffinata che induce anche le angosce infantili a riaffiorare: un capolavoro che predispone l’animo al tumulto e poi alla quiete. Proprio come il mare che minaccia tempesta finché il vento lo tortura, per poi rallentare il moto delle onde quando Eolo molla la sua presa. A quel punto, la risacca di­venta un dolce tintinnio.

Tra poco Leandro dovrà abbandonare la tastiera per af­frontare la vita che urge. Lo fa sempre a malincuore. Non c’è posto al mondo in cui possa sentirsi più a suo agio del suo studio. Solo, circondato da tutto ciò che ama, e che ama contemplare, suonando il suo pianoforte a coda, Leandro può raggiungere l’estasi. Ecco perché indugia ancora un po’.

Giunto alle ultime note del Jardin féerique, il battito cardia­co è di nuovo regolare, la musica ha compiuto la sua magia. Resta seduto qualche istante prima di alzarsi, per godere il più possibile del silenzio ancora ricco di suono. Poi, appog­gia le mani sulle ginocchia doloranti nel tentativo di fare per­no e mitigare il dolore che gli pugnalerà la schiena. Ci prova con impeto perché teme di fallire quell’ascesa. A sorpresa, in un attimo si ritrova in piedi. È ora di andare e affrontare il resto della giornata che immagina complicata. Fa qualche passo, ma un leggero tremore lo coglie imperlandogli la fronte di sudore: no, non è pronto. Leandro non è mai pron­to, se si tratta di schiudersi al mondo. Torna al pianoforte, come un animale nella sua tana.

Zenab

Come può essere dolce la morte, se l’acqua l’attutisce.

Il suono sordo delle onde sembra cullare l’ultimo attimo di vita.

Zenab non avrebbe mai creduto che proprio il mare, quel­la meraviglia del creato che al tramonto s’infiamma incene­rendo il cuore, potesse divenire la sua tomba.

Straordinariamente, invece, il mare torna a essere una cul­la accogliente per lei che aveva già accettato di morire. In­credibile che Zenab riesca ancora a vederlo in tutta la sua magnificenza.

La tempesta è passata, ma ora il sole colpisce con dardi in­fuocati la pelle sempre più arsa. Il pensiero di Zenab è diventato confuso, non distingue più la realtà da ciò che la sua mente immagina di vedere. È ancora abbastanza lucida da capire che sta per svenire, tuttavia è priva di ogni forza per reagire.

Due mani caritatevoli le bagnano le labbra con le ultime goc­ce di acqua potabile. Una piccola pezza lurida, umida, le viene appoggiata sulla fronte. La vista torna pian piano e il pensiero si fa lucido all’improvviso. «Dov’è, come sta?» sono le parole che riesce solo a sussurrare dopo ore di stordimento.

Il dolce dondolio si interrompe quando la barca, di notte, raggiunge la riva.

All’improvviso Zenab non vede più il mare, nonostante la circondi minacciosamente. La meravigliosa sensazione della sabbia sotto i piedi non è descrivibile. Nulla a che vedere con il fatto che quella terra brulla, circondata da acqua cristalli­na, racchiuda alcune tra le spiagge più belle al mondo. Ze­nab è felice, nonostante tutto, solo per averla raggiunta. Sfio­ra la sabbia, la stringe a fatica nel pugno, come fosse l’oro tanto cercato. Lo scenario delle isole Pelagie è pietroso, pri­vo di alberi, molto simile al villaggio in cui è nata, da cui pro­viene. Se non fosse stremata, troverebbe buffa tanta somi­glianza fra territori di culture così distanti.

Braccia eroiche la trasportano di peso lontano dalla riva, dal mare che voleva ingoiarla. La meta che significa salvezza non è lontana ma neppure confortante. Doveva essere il pa­radiso, invece trasuda disperazione. Non c’è più nulla di umano nei poveri cristi che attendono in coda insieme a lei. Sembrano svuotati di viscere e anima. Gli occhi, che paiono sporgere dalle orbite, devono aver visto l’inferno; le mani mostrano il tremore di chi pensa di non aver più diritto alla vita. Aspettano un panino e un po’ d’acqua, i primi viveri do­po giorni di stenti. Probabilmente anche Zenab si sentirebbe così svuotata, se non fosse per quella piccola mano che strin­ge fiduciosa la sua…

Che cos’è la dignità? Forse la cosa più rivoluzionaria della nostra esistenza. Quella che dà un senso alla vita, quando la vita, ridotta a brandelli, smette di avere un senso. È la prua che fende l’acqua dell’oceano, quando la rotta è perduta. È la direzione lineare che salva una vita dall’infernale moto concentrico in cui può finire.

Zenab, che non ha più nulla, difende il gioiello che le re­sta: la sua dignità. E la vita che racchiude quella piccola ma­no che stringe con forza la sua.

La distanza che sembrava incolmabile è stata annullata.

L’approdo nell’altrove che sognava le fa tremare i polsi.

Rappresentava un sogno, poi una speranza. Ora rappre­senta l’ignoto, e Zenab teme che sia di nuovo inferno.

(continua in libreria…)

© 2025, Garzanti S.r.l., Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

Fonte: www.illibraio.it