“Madre, maestra o matrigna”: Fioly Bocca racconta il suo rapporto di appartenenza con la montagna

di Fioly Bocca | 24.09.2020

Ho con la montagna un rapporto di appartenenza. Mi sono familiari i boschi inondati dalla luce del mattino, odorosi di muschi e pacciame dopo la pioggia, le radure erbose, le cenge solitarie che si snodano tra distese di sassi bianchi.

Per tutta la vita ho trascorso buona parte dell’anno tra i monti trentini, in una piccola e aspra vallata, ancora piuttosto incontaminata e sconosciuta al turismo di massa. È stata mia madre, originaria di questi luoghi, a condurmi per prima lungo i ripidi sentieri che si inerpicano dietro casa. È stato con lei che ho imparato l’importanza di un passo cadenzato, di respiri lunghi e profondi per ossigenare corpo e pensieri. Con lei ho imparato a riconoscere la bellezza sulle venature di una foglia che in autunno imbiondisce, il fascino delle nebbie che velocemente inghiottono e snudano l’orizzonte, quel sentimento di mistica incredulità di fronte alla prima nevicata di stagione.
Cercare una limpidità di pensiero nel rapporto con le alture e, prima ancora, con la natura, è eredità di mia madre. Il mio approccio alla dimensione alpina, parte del mio cordone ombelicale, è dunque tutto al femminile; sono stati passi piccoli ma costanti che non avevano come scopo la salita in vetta ma piuttosto una scoperta di scorci, angoli di intima quiete, panorami intravisti tra rami frondosi. La montagna con mia madre e mia sorella, la montagna “tra donne”, è stata un conoscersi meglio, un confidarsi anche attraverso il silenzio, interrotto dal rumore delle scarpe sul terreno e dallo sciabordio dell’acqua nei ruscelli. È donna, penso, un andare contemplativo, un sentimento di sinergia con quanto ci circonda.

Negli anni dell’adolescenza e della prima giovinezza ho cominciato a esplorare questi stessi luoghi insieme agli amici. È stato allora, o a partire da allora, che mi sono resa conto che non esiste un solo modo per affrontare i sentieri che sovrastano la valle. C’era, in qualcuno del gruppo, una tendenza alla sfida, una necessità di toccare cima nel più breve tempo possibile; ogni ascesa un rito catartico, necessariamente faticoso e quasi agonistico. Ho capito che in alcuni prevale un bisogno, forse proprio della giovinezza, di mettere continuamente alla prova il proprio limite.

In me convivono i due aspetti; in montagna non ambisco a chissà che impresa, sono una frequentatrice di medie altezze, amo l’esplorazione più che la conquista, ma allo stesso tempo vivo le camminate tra i monti come palestra per la mia forza di volontà. Pormi qualche obiettivo, anche minimo, magari dopo periodi più o meno lunghi di inattività, è un modo per dire a me stessa “Eccomi, ci sono. Sono ancora qui.” Sentire il fiato che irrobustisce, il sangue che circola più velocemente e i polmoni che si aprono è ogni volta un venire al mondo.

La montagna non è solo un luogo ma una condizione dello spirito; è fatica, non solo e non tanto per chi la scala, ma soprattutto per chi la vive, in ogni stagione dell’anno. È freddo da cui ripararsi, sono ginocchia che si piegano in un eterno salire e scendere, è terra dura, intrattabile, e spesso isolamento e solitudine. Ed è anche, necessariamente, lezione di umiltà – valore universale, questo, che non distingue tra uomo e donna. Ogni tanto è bene ripensare alle parole della grande alpinista Nives Meroi: “Io sono le montagne che non ho scalato.”

Cerco di trasmettere il mio amore per i sentieri alpini e la natura ai miei due figli, maschi. Quest’estate abbiamo affrontato insieme un’escursione abbastanza impegnativa, con una pendenza notevole. Non guardate sempre in alto, dicevo loro, non guardate continuamente la meta. Guardatevi i piedi, il prossimo gradino, il breve pezzo di strada che viene: sentirete meno la fatica.

Mi sembra che questo possa valere anche nelle piccole imprese quotidiane, soprattutto in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo. Del resto, questo fa la montagna: insegna. Perché rimane il fatto che – intendila come madre, maestra o matrigna – la montagna è femmina.

Fioly Bocca

L’AUTRICE E IL LIBRO – Fioly Bocca vive in Monferrato, in una casa di campagna, con i figli e il compagno. Dopo la laurea in Lettere Moderne, ha frequentato un corso di redazione editoriale e attualmente lavora in un Consorzio informatico a Torino. Ama la montagna, i viaggi, lo yoga, e le lunghe camminate – a piedi o a cavallo – nella natura.

Quando la montagna era nostra (Garzanti) è il suo nuovo romanzo, e racconta una storia di coraggio, di amore e di legami familiari. La protagonista, Lena, conosce ogni curva, ogni cengia, dove il fitto dirada per diventare dorso pietroso o alpeggio. Conosce a memoria ogni anfratto di quel paese e di quelle montagne che lo circondano. Perché lì è dove si sente a casa. Lì dove è cresciuta con una madre che le è sempre sembrata distante e un padre a darle tutto l’affetto di cui aveva bisogno. Lì dove negli anni ha accumulato tutti i suoi ricordi, quelli che sono una carezza lieve sul cuore e quelli che invece pesano come un macigno. Ma ora proprio lei che ha messo in pausa la sua vita in una solitudine sempre uguale, avverte uno smottamento, come una piccola frana che dalla cima fa sentire la sua eco fin nella valle. Perché Corrado è tornato. Corrado che molti anni prima è andato via senza un addio. L’uomo con cui Lena ha condiviso l’amore per le sue montagne come con nessun altro. Erano solo due ragazzi, ma il legame che li univa aveva molta più profondità, saggezza, maturità. Non si rivedono da tanto tempo, ma si sa che questo al cuore non interessa. E quando Corrado vorrebbe spiegare le ragioni delle sue scelte, Lena non sa se ha la forza di sostenere il peso di quei segreti. Sono porte per lei ormai chiuse, o così si è sempre detta. Ora che sua madre sta perdendo i suoi ricordi lei non sa se vuole ridare voce ai suoi. Possono fare male. Oppure possono essere come un vento che mentre si è in altura spazza le nuvole e finalmente riporta il sole.

Fonte: www.illibraio.it