Una riflessione sulle adozioni

di Bruno Morchio | 14.06.2016


La storia raccontata nel romanzo Fragili verità, in cui l’investigatore privato Bacci Pagano è chiamato a ritrovare un sedicenne colombiano adottato da una ricca coppia della Genova bene, nasce dalla mia trentennale esperienza di psicologo che opera in un consultorio familiare pubblico.

In questi anni ho incontrato decine di adottati, specialmente stranieri, provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Asia e dal Sudamerica, che erano arrivati in Italia quando ormai avevano sei, otto o dieci anni; giunti all’adolescenza sono “scoppiati”, manifestando comportamenti di ribellione che ricapitolavano una storia sepolta di violenze, abusi, abbandono e trascuratezza che l’adozione avrebbe dovuto “curare”, dando luogo a un nuovo inizio che cancellasse il dolore del passato.

I comportamenti manifestati da questi ragazzi erano quasi sempre gli stessi: difficoltà scolastiche spinte fino all’abbandono, oppositività, aggressività, fughe, bugie e furti ai danni dei genitori, talvolta a estranei, consumo di sostanze stupefacenti (hashish, marijuana o, peggio, cocaina e crack). Esattamente quanto succede a Giovanni Selman nel romanzo, che Bacci Pagano ritrova senza difficoltà, ma al quale si pone il problema drammatico di come aiutare lui e i suoi genitori una volta riportato a casa il fuggitivo.

Negli occhi di questi genitori ho letto spesso disperazione, sconforto e senso di sconfitta, che talora venivano mascherati dietro atteggiamenti rabbiosi di rifiuto ed espulsione. Sovente ho anche trovato nelle loro storie passate ferite profonde che determinavano un sotterraneo conflitto nella coppia e incontravano quelle del figlio adottivo creando una vera e propria miscela esplosiva. Un incontro tragico fra destini, insomma, proprio come accade nel romanzo.

Mi sono domandato, insieme ai colleghi, che cosa c’era di “sbagliato” alla base di questi esiti talvolta catastrofici.  Questo mi ha portato a riconsiderare il principio di base dell’adozione, soprattutto quando un bambino si  è ormai formato e possiede un bagaglio, per quanto doloroso, di esperienza, affetti, ricordi che fondano la sua identità. L’adozione in sé, al di là delle intenzioni dei genitori, spezza la loro vita: dopo un mese bambini di otto-dieci anni dimenticano la loro lingua, la loro storia e spesso viene loro perfino cambiato il nome. Questo indica che l’adozione promuove uno spontaneo processo di rimozione attiva della memoria. Rimuovere ciò che si è per diventare “altro” è un processo psichicamente molto pericoloso, che comporta un rischio di psicotizzazione.

Nella mia esperienza, infatti, ritrovare la strada per ricomporre i conflitti e restituire almeno una relativa serenità a genitori e figli richiede un cammino lungo e incerto, che aiuti i ragazzi a ricostruire la propria storia (della quale spesso i genitori adottivi sanno poco e nulla), riattivando il ricordo attraverso differenti strade: una è senza dubbio quella della psicoterapia, ma anche riportare i figli nei luoghi delle loro origini, gettare dei ponti con il passato, è un lavoro non scevro di rischi ma necessario per reintegrare “il pezzo mancante”, quello che l’adozione voleva cancellare. Nel romanzo il piccolo Bernardo, che a tre anni rovistava in una discarica in cerca di cibo, risulta così diverso dal Giovanni attuale, forte bello e incazzato come una divinità india.

Chiudo citando un breve dialogo del romanzo. Bacci parla con Giacomo Selman, padre adottivo di Giovanni- Bernardo, in una trattoria del centro di Genova.

«Dunque conferma: diventerà un delinquente, nonostante tutto quello che abbiamo fatto per dargli una vita diversa.»

«Non so», ripeto. «Ne ho già parlato con sua moglie. Voi avete fatto il possibile e l’impossibile…»

Lascio la frase in sospeso. Sto pensando che non vorrei mai passare su un ponte progettato da un ingegnere meno scrupoloso di lui.

«Ma?» incalza.

Ficco lo sguardo nei suoi occhi azzurri, chiarissimi, occhi che portano tutta la severità e il rigore di lontani antenati venuti dal Nord. «Ma cosa?»

«Finisca la frase.» Nuovamente il tono, più che un invito, suona come un ordine.

«Quale frase?»

«Noi abbiamo fatto il possibile e l’impossibile, ma…»

Mi stringo ancora nelle spalle. «L’avete fatto per Giovanni.»

«Certo che l’abbiamo fatto per lui. E allora?»

«Il bambino di tre anni – quello che frugava nella discarica in cerca di cibo – si chiamava Bernardo.»

L’AUTORE – Bruno Morchio, in libreria per Garzanti con Fragili verità, vive a Genova, dove lavora come psicologo e psicoterapeuta; ha pubblicato articoli su riviste di letteratura, psicologia e psicoanalisi. Il suo romanzo Il profumo delle bugie è stato Premio Selezione Bancarella 2013. È autore di altri dieci libri che hanno per protagonista l’investigatore privato Bacci Pagano.

Fonte: www.illibraio.it