“Jane Eyre” e “Cime tempestose” letti da Virginia Woolf

di Redazione Il Libraio | 09.05.2022

Dopo aver dato alle stampe il volume Libri e ritratti (a cura di Mary Lyon, nella traduzione di Claudia Ceccarelli e Veronica De Carolis), che raccoglieva una selezione di scritti letterari e biografici firmati da Virginia Woolf (1882-1941), Elliot edizioni torna a occuparsi dell’autrice nella sua veste di critica letteraria, riproponendo in una nuova traduzione e curatela una delle sue opere più significative.

Parliamo de Il lettore comune (traduzione di Elena Bollati), in cui con tutta la sua potenza immaginativa e vivacità – marchi di fabbrica del suo genio – Woolf riesce a condensare la sua vasta cultura e a rivolgersi per l’appunto al lettore comune (suo contemporaneo ma anche odierno) spaziando dall’Inghilterra medievale alla Russia degli zar, da Jane Austen a Joseph Conrad, da Michel de Montaigne a George Eliot.

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The Common Reader, questo il titolo originale dell’opera, apparve per la prima volta nel 1925. Il secondo volume uscì invece nel 1932, e in entrambi confluirono articoli già apparsi su giornali come The Times Literary Supplement, The Nation e The New Statesman, insieme ad altri materiali inediti. Si tratta dunque di un’opera variegata e di spessore, nella quale una delle autrici più di spicco della letteratura inglese di tutti i tempi si interroga sul compito del lettore, dello scrittore, del recensore e del critico.

Quanto al suo destinatario, il lettore comune, per inquadrarlo meglio viene specificato che “legge per il suo piacere e non per insegnare agli altri o correggere le opinioni altrui“: ecco perché, in fondo, il lettore comune siamo tutti noi.

Copertina del libro Il lettore comune di Virginia Woolf

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un capitolo del volume:

Jane Eyre e Cime tempestose

Dei cento anni che sono passati dalla nascita di Charlotte Brontë, lei, il centro di tante leggende, devozione e letteratura, ne visse trentanove. È strano pensare a quanto queste leggende potrebbero essere diverse se la sua vita avesse avuto un decorso ordinario. Sarebbe potuta diventare, come molti altri suoi contemporanei, una figura familiare da incontrare a Londra o altrove, il soggetto di ritratti e innumerevoli aneddoti, la scrittrice di molti romanzi, magari di diari, distante da noi ma ben presente nella memoria degli anziani in tutto lo splendore di una fama affermata. Avrebbe potuto essere ricca, avrebbe potuto essere benestante. Ma così non è stato. Quando pensiamo a lei dobbiamo immaginare qualcuno senza destino nel nostro mondo moderno;dobbiamo andare con la mente agli anni Cinquanta del secolo scorso, a una remota casa parrocchiale tra le brughiere selvagge dello Yorkshire. È in quella canonica e in quelle brughiere, infelice e sola, nella povertà e nella sua esaltazione, che rimane per sempre.

Queste circostanze, oltre ad aver influenzato il suo carattere, possono aver lasciato delle tracce anche sul suo lavoro. Un romanziere, pensiamo, è destinato a costruire la propria struttura con un materiale molto deperibile che le conferisce in principio un senso di realtà, ma alla fine la appesantisce di spazzatura. Aprendo Jane Eyre non riusciamo a reprimere il sospetto che il suo mondo immaginario ci risulterà antiquato, vittoriano e fuori moda proprio come quella casa parrocchiale sperduta nella brughiera, un luogo visitato solo da curiosi, tenuto in vita soltanto dai devoti. Così apriamo Jane Eyre e dopo due pagine i nostri dubbi vengono dissolti.

Le larghe pieghe della cortina scarlatta mi nascondevano tutto ciò che era alla mia destra: alla mia sinistra una invetriata mi proteggeva, ma non mi separava da una triste giornata di novembre. Di tanto in tanto, sfogliando il libro, gettavo un’occhiata di fuori e studiavo l’aspetto di quella serata d’inverno; in lontananza si scorgeva una pallida striscia di nebbia con nuvole, più vicino agli alberi bagnati, piante sradicate dal temporale e, infine, una pioggia incessante, che lunghe e lamentevoli ventate respingevano sibilando*.

Non vi è nulla di più deperibile di una brughiera, o più soggetto al variare della moda delle «lunghe e lamentevoli ventate». Ma questa esaltazione non ha vita breve. Ci trascina per tutto il volume, senza darci il tempo di pensare, senza permetterci di alzare gli occhi dalla pagina. Il nostro assorbimento è talmente intenso che se qualcuno si muove per la stanza, quel movimento non sembra accadere accanto a noi, ma nello Yorkshire. La scrittrice ci tiene in pugno, ci costringe sulla sua strada, ci fa vedere quello che vede lei, non ci lascia nemmeno per un momento e nemmeno ci permette di dimenticarla. Alla fine, siamo completamente permeati dal genio, dalla veemenza e dallo sdegno di Charlotte Brontë. Volti insoliti, personaggi dal profilo forte e dall’aspetto nodoso sono comparsi davanti ai nostri occhi, ma è stato attraverso i suoi che li abbiamo guardati. Una volta scomparsa lei, li cerchiamo invano. Pensiamo a Rochester e dobbiamo pensare a Jane Eyre. Pensiamo alla brughiera e di nuovo vediamo Jane Eyre. Pensiamo al salotto** e anche ai «tappeti bianchi, sui quali pareva che fossero state sparse ghirlande di rosa», quel «marmo del caminetto», con i suoi cristalli color rubino e «l’insieme di neve e di fuoco» – che cos’è tutto questo se non Jane Eyre?

Gli svantaggi di essere Jane Eyre non sono difficili da individuare. Essere un’istitutrice e sempre innamorata è un limiteimportante in un mondo pieno di persone che non sono né una cosa né l’altra. I personaggi di una Jane Austen o di un Tolstoj hanno milioni di sfaccettature rispetto a questi. Vivono e hanno una complessità derivante dal loro effetto sulle altre persone che finiscono per far loro da specchio. Si muovono indipendentemente dallo sguardo dei loro ideatori, e il mondo in cui vivono ci appare come un mondo indipendente che potremmo visitare noi stessi, ora che è stato creato. Thomas Hardy è più affine a Charlotte Brontë sia per la sua personalità, sia per la ristrettezza di vedute. Ma le differenze sono immense. Leggendo Jude l’oscuro non ci affrettiamo a raggiungere la fine; rimuginiamo, riflettiamo e ci estraniamo dal testo su correnti di pensiero che costruiscono attorno ai personaggi un’atmosfera di domande e suggestioni di cui loro stessi, il più delle volte, sono ignari. Sono semplici contadini, eppure siamo obbligati a metterli a confronto con destini e interrogativi di ampissima portata, così che spesso sembra che i personaggi più importanti dei romanzi di Hardy siano quelli senza nome. Charlotte Brontë non porta traccia di questa forza, di questa curiosità meditativa. Non cerca di risolvere i problemi della razza umana; non è nemmeno consapevole dell’esistenza di questi problemi; tutta la sua forza, ancora più tremenda perché legata a stretti vincoli, si trova nelle affermazioni “io amo”, “io odio”, “io soffro”.

Gli scrittori autoreferenziali e limitati hanno un potere negato a quelli più eclettici e di vedute più ampie. Le loro sensazioni sono rinchiuse, schiacciate con forza tra due stretti muri. Le loro menti non concepiscono nulla che non sia stato marchiato da quelle suggestioni. Imparano ben poco dagli altri scrittori e anche quello che riescono ad accettare non lo assimilano. Sia Hardy sia la Brontë sembrano aver basato il loro stile su un giornalismo rigido e pudico. La materia prima della loro prosa è maldestra e ostinata. Entrambi però con fatica e la più ostinata integrità, riflettendo su ogni pensiero fino ad assoggettarlo completamente alle parole, hanno creato una prosa che rispecchia le loro menti per intero, che possiede una bellezza, una forza e una velocità tutte sue. Charlotte Brontë, perlomeno, non doveva nulla alla lettura di molti libri. Non imparò mai la scorrevolezza degli scrittori professionisti e nemmeno acquisì la loro abilità nell’arricchire e piegare la lingua a loro piacimento. «Non riuscii mai a instaurare una comunicazione con menti forti, discrete e raffinate, uomini o donne che fossero» scrive come avrebbe potuto scrivere un qualsiasi direttore di un giornale di provincia; ma una volta acquisita velocità e ardore continua con la sua vera voce: «Finché non avessi superato le difese del riserbo convenzionale e varcato la soglia della loro confidenza, guadagnando un posto proprio accanto al focolare del loro cuore». È proprio lì che prende posto; è il bagliore rosso e irregolare del fuoco che illumina la sua pagina. In altre parole, non leggiamo Charlotte Brontë per la squisita particolarità dei suoi personaggi – i suoi personaggi sono vigorosi e semplici; non la leggiamo per l’umorismo – il suo è cupo e grossolano; e nemmeno per la sua visione filosofica della vita – è quella della figlia di un pastore di campagna. Leggiamo Charlotte Brontë per la sua poesia. Probabilmente è così che accade per ogni scrittore che possiede, come lei, una personalità travolgente, così che, come accade nella vita reale, non devono fare altro che aprire la porta per essere notati. In loro vi è una efferatezza selvaggia, in eterna guerra con l’ordine universalmente accettato e che fa loro desiderare di creare di getto, piuttosto che osservare con pazienza. Questo ardore, che respinge le mezze tinte e altri impicci secondari, attraversa la vita giornaliera delle persone comuni e si mescola con le loro passioni più sfuggenti. Li rende poeti o, se scelgono di scrivere in prosa, intolleranti alle restrizioni che essa pone. È quindi per questo che sia Emily sia Charlotte Brontë invocano sempre l’aiuto della natura. Sentono la necessità di simboli più poderosi delle parole e delle azioni per le immense e sopite passioni della natura umana. È con la descrizione di una tempesta che Charlotte termina il suo eccezionale romanzo Villette. «Il cielo incombe pesante e scuro – il vento naviga da Occidente; le nuvole si plasmano in strane forme»***. Fa appello alla natura per descrivere uno stato d’animo che altrimenti non riuscirebbe a esprimere. Ma nessuna della due sorelle osservò mai la natura accuratamente come fece Dorothy Wordsworth, o mai la descrissero minuziosamente come Tennyson. Ghermivano quegli aspetti della terra che erano più affini a quello che loro stesse sentivano o ascrivevano ai loro personaggi, così le tempeste, le brughiere, quei piacevoli scorci estivi non sono orpelli utilizzati per decorare una pagina noiosa o per mettere in mostra la capacità di osservazione della scrittrice, ma si fanno carico dell’emozione ed esaltano il significato del romanzo.

È difficile afferrare il significato di un libro, perché spesso non ha nulla a che vedere con quello che accade e che viene detto, e consiste più che altro in cose diverse in apparenza che hanno avuto una connessione con la scrittrice. Avviene in modo particolare quando, come per le Brontë, lo scrittore ha un’inclinazione poetica e il significato è inseparabile dalla lingua, diventando uno stato d’animo più che un’osservazione. Cime tempestose è un libro più difficile da capire rispetto a Jane Eyre, perché Emily era una poetessa migliore di Charlotte. Quando Charlotte scrisse con eloquenza, splendore e passione “io amo”, “io odio”, “io soffro”, la sua esperienza, per quanto più intensa, si trovava allo stesso livello della nostra. Ma in Cime tempestose non vi è “io”. Non ci sono istitutrici. Non ci sono datori di lavoro. C’è l’amore, ma non è l’amore di uomini e donne. Emily era ispirata da una visione più generale. L’impulso che la spingeva a creare non nasceva dalla sua sofferenza e dalle sue ferite. Guardava a un mondo spaccato da un’enorme confusione e sentiva dentro di sé il potere di rinchiuderla in un libro. Quell’ambizione così incredibile è palpabile in tutto il romanzo – una lotta, in parte contrastata, ma di grande persuasione, per dire qualcosa attraverso le labbra dei suoi personaggi che non è soltanto “io amo” o “io odio”, ma «noi, l’intera razza umana» e «voi, le potenze eterne…», la frase rimane incompiuta. Non è strano. Piuttosto è incredibile che lei riesca a farci provare ciò che aveva da dire. Si solleva nelle parole mezze pronunciate di Catherine Earnshaw: «Se tutto il resto perisse e lui rimanesse in vita, io continuerei a esistere; e se tutto il resto rimanesse e lui fosse annientato, l’universo per me si trasformerebbe in un immenso corpo estraneo, non mi parrebbe più di essere una sua parte». E ancora si manifesta alla presenza dei morti. «Vedo un riposo che nulla può interrompere, e sento l’assoluta certezza di un Aldilà senza fine e senza ombre: l’Eternità in cui si entra quando la vita non ha limiti di durata; l’amore è nella sua espressione più alta e la gioia nella sua maggior compiutezza». È questa asserzione di potere che scorre alla base della natura umana – e che la innalza alla presenza di ciò che è grande – che conferisce al libro la sua grande levatura in mezzo agli altri romanzi. Ma per Emily Brontë non era sufficiente scrivere qualche composizione, lanciare un grido, manifestare un credo. Nelle sue poesie lo ha fatto una volta per tutte e forse le sue poesie sopravvivranno ai suoi romanzi, ma Emily era una romanziera tanto quanto una poetessa. Dovette caricarsi di un compito più complicato e ingrato, dovendosi confrontare con altre esistenze, dibattere con i meccanismi delle cose eterne, creare in modo riconoscibile fattorie e case, per poi riportare i discorsi di uomini e donne che esistevano indipendentemente dalla sua volontà. In questo modo raggiungiamo l’apice dell’emozione, non attraverso farneticazioni ed entusiasmi, ma ascoltando una ragazza cantare tra sé e sé alcune vecchie canzoni mentre si lascia dondolare tra i rami di un albero; guardando le pecore pascolare nella brughiera; ascoltando il respiro del vento tra i fili d’erba. La vita di fattoria con tutte le sue assurdità e inverosimiglianze si dipana davanti ai nostri occhi. Abbiamo l’opportunità di mettere a confronto Cime tempestose con una fattoria vera e Heathcliff con un uomo vero. Ma come è possibile, ci è consentito chiedere, che vi siano verità, comprensione e le più piccole sfaccettature delle emozioni, in uomini e donne che assomigliano così poco a quanto noi conosciamo? Eppure, nel momento in cui poniamo la domanda vediamo in Heathcliff il fratello che una sorella geniale potrebbe aver visto; è impossibile, diciamo, ma nessun ragazzo in tutta la letteratura vive un’esistenza più intensa della sua. È così con le due Catherine; pensiamo che nessuna donna potrebbe sentirsi o agire come loro. Eppure, sono le donne più piacevoli di tutti i romanzi inglesi. È come se Emily Brontë fosse in grado di fare a pezzi tutto ciò che sappiamo degli esseri umani e riempire i vuoti che rimangono con un gusto per la vita che trascende la realtà. Possiede uno dei più rari talenti. Riusciva a liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti, rivelando con pochi tocchi lo spirito di un volto, tanto che questo non necessita più di un corpo; quando parla della brughiera sentiamo il fruscio del vento e il rombo del tuono.

NOTE:

* La traduzione di questo e dei seguenti estratti di Jane Eyre è tratta da Charlotte Brontë, Jane Eyre, traduzione di Fosca Belli, Baldini Castoldi Dalai editore Spa, 2011 [NdT].

** Charlotte ed Emily Brontë avevano un senso del colore molto simile. «Ah! Che bellezza! Un posto stupendo! Tappeti rossi, e sedie etavole pure rosse, e il soffitto bianchissimo coi fregi tutti dorati; nel centro appesa a delle catene d’argento, c’era una pioggia di gocce di cristallo tutte scintillanti». La traduzione di questo e dei seguenti estratti di Cime tempestose è tratta da Emily Brontë, Cime tempestose, traduzione di Amedeo Cerada Genet, Bibliotheka Edizioni.
«Eppure era soltanto un grazioso salotto, con uno più piccolo accanto. Tutti e due avevano tappeti bianchi, sui quali pareva che fossero state sparse ghirlande di rosa. I soffitti erano ornati di grappoli d’uva, e di foglie di vite, di una bianchezza nivea, che faceva contrasto con i mobili rossi. Vasi scintillanti di Boemia, di un rosso vermiglio, facevano risaltare il marmo del caminetto; fra le finestre erano collocati grandi specchi, nei quali si rifletteva quest’insieme di neve e di fuoco» – traduzione tratta da Charlotte Brontë, Jane Eyre, traduzione di Fosca Belli, Baldini Castoldi Dalai editore Spa, 2011 [NdA].

*** Charlotte Brontë, Villette, traduzione di Marcella Hannau Pavolini, Newton Compton, 2016 [NdT].

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it