La famiglia: bisogna allontanarsi per riscoprirla e fare pace con il proprio nome

di Carmela Scotti | 25.03.2021

Tra l’infanzia e l’adolescenza, nella soglia dove l’una tramonta e l’altra sorge, ho scoperto che eravamo poveri. Non poveri da chiedere l’elemosina, ma poveri in modo più subdolo, quello che ti concede solo il necessario per vivere quando tu hai appena scoperto la magia del superfluo.

Sgorgò, da quella consapevolezza nuova di zecca, il sentimento dell’invidia che negli anni non mi ha mai abbandonata e che io ho declinato in tutte le sue sfaccettature, dall’ammirazione per i talentuosi all’odio compatto e furente. Ma lì, in quel luogo della metamorfosi dove il bruco si incrisalida in farfalla, l’invidia prese la forma di un livore per tutto ciò che non avevo, per chi possedeva più di quanto io potessi desiderare. Non era l’affetto a difettare, di quello ne avevo in abbondanza, ma cosa me ne facevo di baci e carezze quando a mancarmi erano le sfumature viola e cremisi di uno zainetto Naj-Oleari, o lo scarlatto brillante di una felpa Best Company esposta in vetrina?

La sera, a letto, immaginavo di far sparire la mia famiglia con la sola forza del desiderio, la casa in cui dovevamo abitare pigiati come sardine, mio fratello con la sua musica a tutto volume, mio padre e mia madre con il loro inconcludente lavoro da ambulanti, mia nonna invalida che urlava la sua rabbia contro sua figlia, mia zia, con la quale dividevo la stanza e le notti in bianco, e mio nonno, pure lui ci metto, con quel suo modo bizzarro di alzarsi dalla sedia accompagnando la salita con un “Ahi, ahi, ahi” da disfatta delle ossa.

Chiudevo gli occhi e sognavo di offrire la mia famiglia a Satana in cambio di un fard glitterato al profumo di pesca della Deborah (“Prenditeli tutti, o Signore delle tenebre, e dammi in cambio questo benedetto zainetto Naj-Oleari, e magari mettici dentro anche una cintura El Charro e l’ombretto. Prenditi la mia famiglia che è infelice a modo suo – leggi ‘povera’ – e dammene una felice – leggi ‘ricca’ – che sia uguale a milioni di altre, sai chi se ne frega“).

Satana non venne, però al suo posto arrivò Sveva, una nuova compagna di classe i cui genitori erano primari di un qualche ospedale, qualifiche roboanti che si traducevano nel denaro necessario per assicurare alla figlia tutto ciò che potesse desiderare.

Già il nome, Sveva, evocava nella mia mente castelli nei cui giardini cresceva rigogliosa “l’erba voglio”, stanze abitate da principesse tristi ma dotate di ogni accessorio alla moda, e io invece come mi chiamavo? Carmela Giuseppa! Ma come, dico, come potevano due genitori sani di mente riservare a una figlia non uno, ma due nomi del genere? Inutile domandare, tanto il danno era fatto, non restava che andare incontro all’avvenire fulgido che Sveva mi offriva.

Passavo gran parte della giornata a casa sua, sperando che la lontananza dalla mia, di casa, fosse sufficiente per scrollarmi di dosso l’odore dei desideri frustrati, e per accelerare la metamorfosi, la pregavo di chiamarmi Carmen, non Carmela, neppure Mela né tantomeno Melina, una delle tante declinazioni della disgrazia usate dai miei parenti per evocare l’appartenenza alla tribù sgangherata. La mia felicità, quando con Sveva ce ne stavamo spaparanzate sul tappeto Kilim del suo soggiorno a truccarci, era pari solo alla frustrazione nel dover tornare a casa prima che la carrozza tornasse zucca.

Poi, un giorno come un altro, un odore di polpette al sugo che entrava dalla finestra spalancata del salotto di Sveva mi punse le narici riportandomi nella mia cucina, alle polpette che mia madre preparava ogni domenica che Dio mandava in terra e che mi toccava trangugiare col sottofondo ronzante della Formula Uno che mio padre guardava alla televisione. La polpetta, questa inattesa madeleine di carne trita e pomodoro, mi scaraventò addosso il peso dell’assenza.

Fu una cosa strana, perché la mancanza non dovrebbe avere peso, e invece sembrava un macigno che rompe la schiena. Seduta sulla poltrona di velluto, una tazza di porcellana col tè appena preparato dalla cameriera filippina di Sveva, mi sorpresi a chiedermi cosa diamine ci facessi lì, e ne dedussi, con una folgorazione che mi spaventò a morte, che i miei familiari mi mancavano, e che forse quei tentativi un po’ ingenui di correre lontano da loro erano l’unico modo che avessi per tornare a casa.

Quel giorno mi alzai dalla poltrona facendo “ahi, ahi, ahi”, come se lo spirito del nonno si fosse impossessato delle mie ossa e ne comandasse la resa; come se volesse dirmi, a ogni “ahi” che alitavo, che la famiglia è anche un linguaggio condiviso, una personale mitologia, una serie di tic, di comportamenti destinati a tornare a galla, anche quando ci metti un pietrone sopra. Che siamo fatti di paradossi che ci fanno umani e che non siamo niente, se non facciamo i conti con tutto ciò che crediamo di odiare. O meglio, per dirla con Proust, che “abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia le idee di cui viviamo così come la malattia di cui morremo”.

Negli anni, riflettendo su quella epifania nel salotto buono di Sveva, ho capito che a definirmi, a definirci tutti, è anche ciò che ci manca, che sono le assenze, le fondamenta su cui edificare le nostre vite di adulti. Insomma, ho capito che era lì il mio posto, in quella famiglia sgangherata, in quell’arco teso di desideri frustrati che erano la forma stessa dell’amore, e che mi stava bene così, anche se voleva dire rinunciare allo zaino Naj-Oleari violetto e cremisi. E così, cercando la resa con l’identica fermezza con cui avevo dichiarato guerra, ho fatto la pace con tutto, persino con il mio nome.

la pazienza del sasso

L’AUTRICE E IL LIBRO – Carmela Scotti si è diplomata in pittura e fotografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Ha vissuto a Palermo, a Roma e a Milano, facendo i mestieri più diversi. Oggi vive in Brianza e collabora con i settimanali Cronaca Vera e Tu Style. Il suo primo romanzo si intitola L’imperfetta (Garzanti, 2016) ed era stato finalista al premio Calvino. Ora l’autrice torna in libreria sempre per Garzanti con La pazienza del sasso. E veniamo alla trama del suo nuovo romanzo, che racconta una storia di legami familiari. Di espiazione. E del perdono che si cerca quando la verità, avvolta dalle nebbie del tempo, diventa opaca e rischia di confondersi con l’ossessione.

Della madre, Argia ricorda lo sguardo sereno mentre fa danzare le dita sui tasti del pianoforte. Il suo profumo, nei pomeriggi in cui le insegna a intrecciare i fili con il tombolo nella soffitta calda. In quei momenti, Argia si sente il centro dell’universo materno e vorrebbe occupare quel posto per sempre. Ma il suo si rivela presto un desiderio impossibile.

Quando sua sorella Dervia viene al mondo, la prima cosa che fa è toglierle quel primato. Senza alcuno sforzo. Del resto, Dervia è tutto ciò che Argia non è mai stata: bella, aggraziata e fragile. Di una fragilità che è naturale proteggere, ma è altrettanto facile colpire. Bastano piccoli dispetti, un rifiuto a una richiesta di aiuto, un silenzio troppo profondo, perché Argia sfoghi l’invidia e la gelosia che le si muovono dentro e, crescendo, si abbandoni a gesti e ripicche sempre più velenosi nei confronti di Dervia. Fino a raggiungere il punto di non ritorno.

Da allora sono passati anni. Argia si è rifatta una vita lontano dall’aspra Sicilia dove è cresciuta. Lontano da un passato troppo pieno di rancore e frustrazione. Eppure, intorno a sé vede solo macerie. E si rende conto che i legami di sangue, per quanto non cercati e non voluti, restano eterni e ci definiscono. Per questo deve tornare nel Belice. Per riallacciare i fili di un’esistenza che altrimenti resterebbe soffocata dai fantasmi di un tempo che non esiste più.

Fonte: www.illibraio.it