Dopo Vani arriva Anita: Alice Basso racconta “Il morso della vipera”

di Martina Marasco | 05.07.2020

Alice Basso è tornata. L’abbiamo conosciuta grazie alla fortunatissima serie dedicata a Vani Sarca, la ghostwriter più goffa, irriverente e brillante di Torino: insieme al commissario Berganza, Vani si è trovata – spesso suo malgrado – a doversi barcamenare tra i crimini più efferati, lei che avrebbe voluto solo restare chiusa nella sua stanzetta a leggere, scrivere ed evitare il prossimo…

A poco più di un anno dall’uscita dell’ultima avventura di Vani, Un caso speciale per la ghostwriter (Garzanti), Alice Basso torna in libreria con Il morso della vipera (Garzanti), che presenta ai suoi lettori un nuovo personaggio pronto a conquistare lettrici e lettori: Anita.

Anita è una giovane donna torinese che vive la sua amata città in un periodo storico molto particolare: siamo nel 1935, Benito Mussolini tiene sermoni alla finestra, il partito si aspetta che le donne stiano in casa e allevino i figli, ma lei non ci sta. È ben consapevole del mondo in cui vive, sa che spesso un risolino e l’aria da svampita possono andare a suo favore, e lei sa cosa vuole: l’indipendenza. E sa come ottenerla: lavorando.

Così, quando Corrado, Perfetto Esemplare di Maschio Umano, creato da Madre Natura assemblandolo “pescando pezzi solo dai contenitori delle parti belle”, le chiede di sposarsi, lei accetta, ma solo se prima lavorerà. E quale lavoro potrebbe fare una bella fanciulla nel 1935? La dattilografa, naturalmente.

alice basso il morso della vipera

Alice Basso, in un suo post pubblicato sui suoi canali social, spiega che Il morso della vipera è stato un fulmine a ciel sereno, e che per scriverlo ha stoppato un altro romanzo arrivato quasi alla fine. Quali sono i motivi per cui hai sentito di dover raccontare di Anita prima di altre storie?
“Se riesco a spiegarlo voglio un Nobel, perché mi sa che sarebbe come riuscire a spiegare l’amore! ‘Colpo di fulmine’ è proprio il termine giusto: era un periodo in cui stavo studiando con molto piacere tante cose diverse e per scopi diversi, in particolare da una parte la storia delle dattilografe in epoca fascista, per uno spettacolo, e la nascita dei gialli in Italia, per dei corsi nelle scuole. E a un certo punto – mentre mi lavavo i denti, me lo ricordo benissimo – c’è stata come una collisione fra i due temi, e ho avuto la visione di una dattilografa bella e sveglia e molto poco portata per farsi gli affari suoi, al lavoro presso un giallista che sogna di essere Chandler ed è costretto a scrivere quello che gli richiede la situazione politica. Basta. Addio. Quel nocciolo ha iniziato a germogliare, e in men che non si dica la mia testa era tutta un fiorire di possibili trame, sviluppi, scene, implicazioni, dialoghi e risvolti. Non c’era più spazio per nient’altro… proprio come quando ti prendi una cotta atroce per uno o una e parleresti solo di quello tutto il giorno”.

La dattilografa è una figura molto popolare negli anni ’30 ma, allo stesso tempo, “problematica”: se da un lato una donna lavoratrice poteva essere in contrasto con l’ideale della “donna-madre, patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla e prolifica”, cara al fascismo, dall’altra era anche un lavoro con cui la legislazione si mostrava discriminatoria (poche tutele, paghe da fame e la non necessaria istruzione). Quanto il contesto storico, quindi, ha influito nella delineazione del personaggio di Anita?
“Certi mestieri, in certe epoche della storia, non sono stati solo dei mestieri: sono stati dei manifesti, dei destini, delle avventure. E la dattilografa degli anni ’30 è una figura molto ben definita alla quale tutti noi ancora associamo un immaginario preciso. Il grembiule nero, i capelli arricciati con il ferro, le dita che corrono veloci sulla Olivetti. E i soldi da mandare a casa, magari le avance del capo che si sente autorizzato a considerarsi anche un po’ padrone, e la consapevolezza di dover lasciare il posto non appena sarà tempo per il matrimonio, perché, più per una serie di ricadute e conseguenze delle leggi che per la legge in sé, era così che funzionava. Andare a lavorare come dattilografa era a volte l’unica finestra di indipendenza che una ragazza poteva ritagliarsi in una vita da casalinga. E Anita, la nostra protagonista, questa cosa la annusa subito e la coglie al volo, prima ancora di rendersene completamente conto”.

alice basso

Qual è il rapporto tra i gialli e il fascismo?
“Ah, questo è uno scenario interessantissimo. Gli anni ’20 e ’30, come sappiamo, sono gli anni della prima grande stagione del noir, o meglio ancora del pulp: in America iniziano a scrivere Hammett, Chandler e tutti i loro colleghi di Black Mask, in Italia ci si innamora tutti dei Gialli Mondadori e non solo. Ma – c’è un ma. Al regime i gialli danno fastidio. Il perché è lapalissiano: parlano di crimine, quindi ne ammettono l’esistenza, intaccano la facciata della nuova Italia tutta ordine e disciplina. Così, tramite aggiustamenti progressivi alle leggi sulla censura e influenze più velate e ambientali, finisce che i gialli italiani devono assoggettarsi a delle pretese assurde che gli levano tutto il divertimento (il cattivo dev’essere sempre straniero, il poliziotto dev’essere un fascista modello e trionfare sempre…). In verità la cosa si fa eclatante solo alle soglie della guerra, ma già nel corso degli anni ’30 un giallista o un editore di gialli se la passavano così così (ci sono un sacco di famose testimonianze a riguardo, in primis quelle di Alberto Tedeschi). E Sebastiano Satta Ascona, il coprotagonista di Anita, si trova proprio in questa situazione”.

Costruire una serie richiede studio, preparazione e pianificazione. Che tipo di lavoro c’è dietro Anita? Vuole raccontarcelo?
“Costruire una serie richiede pianificazione soprattutto se, come faccio io, pretendi di stabilire le trame di tutti i romanzi della serie prima di iniziare a scrivere il primo. Ho fatto così con Vani e ho rifatto così per Anita. Ma questa serie, in particolare, ha richiesto un sacco di studio per i contenuti, per lo sfondo storico. Potrei dire che ho studiato il doppio di quand’ero all’università, ma con metà della memoria che avevo allora (per ragioni anagrafiche). Però che bello! Sono andata a impicciarmi di un miliardo e mezzo di cose disparate: la legislazione sulla censura, ovviamente, e quella sul lavoro femminile, e quelle sono state ancora le cose facili; i gialli americani che Sebastiano traduce per la sua rivista, il che ha voluto dire andare a scovare in lingua originale un sacco di autori di Black Mask; poi c’è stata tutta la vita quotidiana da imparare, gli oggetti, i gesti, le abitudini; e poi la città, perché la Torino negli anni ’30 non dico che ci sia ancora chi se la ricorda ma quasi, dunque bisogna essere precisi – oltre al fatto che restituire un’ambientazione vivace e realistica è stimolantissimo e divertentissimo”.

Un bel contrasto con l’immagine più “canonica” che abbiamo di quel periodo…
“Gli anni ’30 ce li immaginiamo tutti un po’ in bianco e nero e sgranati come nelle foto d’epoca, vero? Insomma, diciamo anni ’20 ed evochiamo le flapper e il charleston, diciamo anni ’40 e pensiamo alle pin up coi vestitini strizzati in vita o i film di guerra, ma i ’30, e in particolare i ’30 in Italia, cosa ci fanno venire in mente? Le adunate e le manifestazioni di ginnastica dei piccoli balilla, e basta? La sfida è stata vedere il 1935 attraverso gli occhi di una ragazza di vent’anni, vivace e brillante e piena di voglia di divertirsi, e colorarli così”.

Quali sono le difficoltà dal passare da un personaggio come Vani (non possiamo non nominarla) ad Anita? Le due sono distanti anni luce, o possiamo vedere in Anita un po’ di Vani e, perché no, ripensare a Vani in un’altra ottica, accostandola ad Anita?
“Di una cosa sono sempre stata certa: la mia nuova protagonista, Anita, avrebbe dovuto avere la stessa cazzimma (per dirla alla napoletana, anche se non sono napoletana, ma è una parola troppo bella e intraducibile!) di Vani. Magari non tutti quei problemi di socializzazione e di identità (nel 1935 c’erano cose più urgenti a cui pensare), ma il caratterino, quello sì. Mi sarei annoiata un sacco a raccontare le gesta di una gattamorta. Nella mia testa Anita e Vani potrebbero incontrarsi e piacersi moltissimo: certo, Anita ha una punta di vanità e di spensieratezza che Vani non aveva – è una bella ragazza a cui piace molto essere bella e che, in un mondo di maschilisti istituzionalizzati, ha deciso di trarne i maggiori vantaggi possibili – ma è sveglia, coraggiosa e intraprendente, e dotata di enorme spirito pratico. E, come Vani, non sa resistere alla tentazione di una battuta impertinente. Come mi ha fatto notare una amica e lettrice che a volte vede nei miei libri cose che non ero arrivata a vederci nemmeno io (che lettori preziosi, questi!), Anita potrebbe avere qualcosa di una giovane Irma (l’amica 82enne – e strapiena di cazzimma – di Vani)”.

Anita inizierà presto a lavorare per un editore di racconti gialli, avvicinandosi alle storie di Hammett e Chandler, per citare due autori. Quali autori di gialli, secondo lei, non possono mancare sulla scrivania di un appassionato?
“Questi due, scelta banale ma sicura. Dei quali però, aggiungerei, vale la pena di conoscere anche la storia personale oltre che le opere: personaggi romantici ed estremi, che nulla hanno da invidiare ai loro vari Sam Spade e Philip Marlowe. Ma, per esempio, leggendo in lingua originale i racconti delle riviste pulp americane di quegli anni mi sono innamorata anche di Carroll John Daly, il padre del detective Race Williams, una delle penne più divertenti che abbia mai incontrato (tant’è che ne ho fatto l’autore preferito di Anita). Mi ricordo di avere letto un suo romanzo durante un viaggio in treno, e tutti mi sbirciavano perché ogni trenta secondi ridevo ad alta voce”.

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Quanto i social sono importanti nella sua comunicazione e nel rapporto col suo pubblico?
“Molto, e un tempo non l’avrei per niente immaginato. Io sono una gran chiacchierona, di persona e per iscritto: una valvola di sfogo mi serve, o rischio l’imbavagliamento da parte di familiari e amici. Oltre a questo, non posso stare senza scrivere: un libro all’anno mica mi basta, se non butto giù qualche riga ogni giorno mi vengono i brufoli. Ecco, Facebook è così comodo: scrivi tutto quello che vuoi, su quello che vuoi, poi chi vuole leggere legge e non hai disturbato nessuno. (Già Instagram, per esempio, mi inibisce con il suo limite di caratteri, oltre al fatto che mi chiedo cosa diavolo dovrei mai avere da fotografare tutte le volte… ma questa è evidentemente la vecchiaia che avanza e che mi fa brontolare come Mr. Magoo)”.

Non le è mai capitato – succede, purtroppo, molto spesso – di incappare in qualche “leone da tastiera” o in qualche commentatore non proprio educato?
“La cosa più carina è che, mentre tutti si lamentano della ferocia che certe discussioni possono arrivare ad avere sui social, io mi ritrovo con dei commentatori in media estremamente educati e civili: capita spesso che si discuta anche da posizioni opposte, ma li vedo sempre sereni e ragionevoli, e pronti a farsi una risata. E questo me li fa stimare tantissimo e mi fa venire voglia di chiacchierarci ancora di più e, sì, insomma, la spirale della logorrea/grafomania non sembra essere proprio destinata a sfumare”.

Fonte: www.illibraio.it