Elena Ferrante: cosa si nasconde dietro la leggenda?

di Jolanda Di Virgilio | 16.04.2021

Chi è Elena Ferrante? Sono passati diversi anni da quando il mistero della scrittrice senza volto ha animato la discussione pubblica, eppure la questione rimane aperta, e torna a bussare alla nostra porta ogni volta che si pronuncia il suo nome.

Ebbene, Annamaria Guadagni – giornalista culturale, che ha lavorato a lungo nell’editoria – lo sa chi è, Elena Ferrante. È una chiesa con una cupola di maioliche gialle e verdi, un sottopasso che segna il confine con un mondo conosciuto, una bambina selvatica e cattiva che sogna di vivere in America, una ragazza che studia alle due e mezzo del mattino chiusa nel bagno, mentre tutti dormono. È un liceale brillante che dirige il giornale della scuola. Un bibliotecario colto e generoso. È un lampo di genio appassionato che si rivela all’improvviso.

Una lingua. Un testo. Elena Ferrante è le sue storie, i suoi personaggi, ma soprattutto: è Napoli.

È proprio in questo luogo – una città caotica e meravigliosa, dai profumi, suoni e colori inconfondibili – che inizia La leggenda di Elena Ferrante (Garzanti) di Annamaria Guadagni (nella foto di Roberto Monaldo, ndr), un volume singolare, che appartiene a un genere tutto suo, a metà tra il saggio, il reportage narrativo e il diario intimo. L’autrice, che aveva già firmato nel 1998 il romanzo L’ultima notte (Baldini&Castoldi), si mette sulle tracce della celebre scrittrice de L’amica geniale, ma non con l’occhio smanioso e invadente di chi ne vuole svelare a tutti i costi l’identità, bensì ripercorrendo i luoghi del romanzo, interrogandoli come se potessero parlare, raccogliendo indizi seminati tra le strade, le università e i vicoli stretti, che diventano una storia nella storiaSe è vero che le opere non coincidono mai con chi le scrive, è anche vero che, rilette e considerate in relazione alla realtà, hanno il potere di rivelarci qualcosa dei loro autori, arricchendosi di nuovi significati.

la leggenda di Elena ferrante Annamaria guadagni

Il testo di Guadagni comincia in medias res. Ci porta immediatamente nel rione dove è ambientato il primo volume della tetralogia, passa in rassegna eventi, tappe e personaggi; ci trascina da una parte all’altra, mentre – sembra – che con il dito ci indichi ogni angolo, come per dirci, guarda qui, qui è dove è andata Lenù alle scuole superiori, qui è dove è Lila si è sposata, e quella è Ischia, ti ricordi cosa è successo su quell’isola, non è vero? Un autentico viaggio, che mescola l’esperienza dell’autrice a quella dei racconti di Ferrante, dando vita a una sorta di indagine, di repertorio, di quadro umano e letterario insieme.

Dalle narrazioni ferrantiane, La leggenda di Elena Ferrante eredita la prosa elegante, fluida e al tempo stesso tormentata, straripante di immagini e di emozioni; nonché un sentore di mistero, un punto interrogativo a cui trovare risposta, che spinge, pagina dopo pagina, ad andare avanti. Le storie di Elena Ferrante, del resto, sono anche storie di fantasmi, e Annamaria Guadagni va proprio a caccia di questi spiriti: con il retino della lettrice appassionata ma anche con l’accurato sguardo di chi sa scovare i particolari più nascosti.

È così che si ritrova a parlare con una donna che tutti sono convinti essere Lila, a osservare le allieve della Normale di Pisa che tanto assomigliano a Elena, a prendere un caffè con un’anziana signora che un tempo lavorava in fabbrica, ad ammirare la Nostra Signora de la Soledad nella pinacoteca del Pio Monte della Misericordia, a passeggiare per il centro antico di Napoli. E poi a un certo punto la incontra per davvero, Elena Ferrante – ma su questo punto non vi sveliamo nulla di più.

Guadagni ha la capacità di immergersi con la mente, il cuore e il corpo all’interno delle vicende, cercando di ricostruire una mappa degli elementi che hanno ispirato la grande scrittrice.

Nel frattempo la sua analisi si fa sempre più sottile, fa riferimenti agli altri libri di Ferrante – La vita bugiarda degli adulti e L’amore molesto (di cui uscirà un nuovo adattamento cinematografico con Natalie Portman nel ruolo di protagonista, dopo quello del 2005 diretto da Roberto Faenza), evidenzia il debito letterario nei confronti di Elsa Morante, compie digressioni su Piccole donne – testo che molto ha a che fare con i romanzi napoletani, specie per quanto riguarda il tema matrimoniale e il rapporto tra Amy, Jo e Laurie che ricalca quello tra Lenù, Lila e Nino. Vengono poi vagliate le celebri analogie tra i libri di Ferrante e quelli di Domenico Starnone che, per molti, potrebbe essere Ferrante stessa.

Insomma, di materiale ce n’è molto. Gli argomenti si moltiplicano e si dispiegano, a ogni capitolo si ha la sensazione che l’autrice apra una piccola porta, che conduce a un’altra porta, e poi a un’altra e a un’altra ancora. Il percorso è insolito e sorprendente, a ogni sosta c’è un mondo da scoprire. Il punto d’arrivo è una meta, un scorcio privilegiato da cui, guardandosi indietro, le storie di Ferrante si trasformano in qualcosa di più: la leggenda scolora nella vita vera, e la vista è bellissima.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it, un estratto:

AL RIONE, AL RIONE

Mentre il treno rallentava è apparso il profilo di una piccola Manhattan, torri di cemento, acciaio e vetro nero; dall’altra parte della ferrovia, le gru rugginose del porto tentavano l’aggancio con un cielo latteo. Appena scesa nell’atrio della stazione ho notato un ragazzo che suonava un pianoforte di cortesia: dava le spalle ai binari e aveva intorno un semicerchio di passanti che cantavano Malafemmena con trasporto. Penso non ci sia un’altra città dove tutte quelle persone s’improvvisano musicanti di prima mattina, andando a scuola, al lavoro o a sbrigare le noie di una giornata come un’altra. I turisti giapponesi in visibilio postavano clip destinate agli amici dall’altra parte del mondo.

Buongiorno Napoli, così immediatamente sciarmante con quel dare spettacolo e «fare i napoletani» forse connaturato all’eterna decadenza che ha trasformato la città in ricordo, in una nostalgia, un’immagine che si avvera andando in scena. Raffaele La Capria, maestro del secondo Novecento, dice che Napoli è scivolata fuori da sé stessa e dalla storia come Atene, Costantinopoli e Alessandria. È successo nel 1799, quando la borghesia repubblicana salì sulla forca irrisa dalla plebe; da allora la città interpreta sé stessa per sopravvivere. La napoletanità è quella cosa che Ermanno Rea «voleva scorticarsi di dosso con spirito luterano» e, nella sua ansia di verità, Anna Maria Ortese non riuscì a convivere con la «civiltà della recita»: Silvio Perrella, uno scrittore che s’è fatto napoletano con convinzione, in un suo libro dialoga con loro e con altri spiriti inquieti; ma lui ama Napoli com’è, la pensa fatta di città diverse e piena di «possibilità segrete».

Da Napoli Elena Ferrante è fuggita, eppure con la sua origine non è mai riuscita a chiudere i conti e se la porta dietro come «un prolungamento del corpo». Una città che resta addosso indelebile, come le impronte digitali e il colore degli occhi, esercita un richiamo irresistibile. Anche per me, che subito le riconosco quella personalità di strada da città mediterranea che Roma ha perduto da tempo. Persino l’atrio della stazione somiglia a una piazza. Due passi fuori e vedi un affaccendarsi vitale e scomposto, ovunque si offre cibo. Certo non ci sono più i maccaronari, i venditori di ricottelle o di mele e pere infornate, di torcinelli e frutti di mare crudi, ma c’è ancora una festa artigianale di casatielli e pizza fritta che fioriscono lungo la strada insieme a cuoppi di terra e di mare, francesine e calzoni, gelati e babà enormi immersi nella crema pasticcera dentro bicchieri di plastica trasparente. Lo so, il centro turistico è una friggitoria a cielo aperto, non sempre la crema è freschissima e le sfogliatelle spesso sono surgelati rinvenuti in forno. Però non siamo ancora al triste boccone del turista, la pizza di cartone uguale dappertutto, da Roma a Parigi.

Distratta dallo spirito mediterraneo con il suo corredo gastronomico e sonoro, in cerca della città riflessa nei romanzi di Elena Ferrante, andavo verso la metropolitana per San Giovanni a Teduccio. L’ingresso al rione dove sono cresciute Lenù e Lila, le bambine della quadrilogia napoletana, si trova a Gianturco. Così vicino da andarci subito a piedi, ma non lo avevo ancora scoperto e immaginavo una periferia remota. Elena Ferrante dice che la distanza è mentale, non fisica, e del resto a Napoli la periferia sta in centro, sotto, nella pancia, nei budelli senza sole con le lenzuola ancora appese ai fili come nei film del dopoguerra, a sventolare odore di fresco e di pulito sopra i miasmi della strada. La differenza è che un tempo erano candide, ora le lenzuola sono colorate e sopportano lo smog. Napoli è un set fantastico e lo sa: un ciak al giorno, quasi centocinquanta produzioni l’anno, una seconda pelle, la vocazione allo spettacolo in azione perenne.

(continua in libreria…)

 

Fonte: www.illibraio.it