Grammatica (e tirannia) dei ricordi – di Carmela Scotti

di Carmela Scotti | 26.01.2023

Ci vuol tempo perché accada davvero quello che è già accaduto”, dice lo scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, e quello che è successo a me è accaduto da così tanto tempo da essersi, finalmente, pienamente verificato in tutte le sue implicazioni.

Ci vuol tempo perché accada davvero quello che è già accaduto, ma ciò che è accaduto non accade davvero solo quando lo si racconta a qualcuno, fosse anche la propria immagine nello specchio?

Dunque, eccoci.

A dieci anni i miei genitori mi investirono di una importante responsabilità, ritirare una ricetta dal medico a poche centinaia di metri da casa. Era la prima volta che mi avventuravo fuori dal cortile in autonomia, e quel percorso fatto così tante volte in compagnia, mi appariva esotico e sconosciuto, ora che la mia mano non stringeva quella di un adulto. Tutto sarebbe filato liscio, e nulla ci sarebbe da raccontare, se sulla via del ritorno non avessi incontrato un uomo che nella mia stravagante fantasia di bambina era un amico, avendo giocato con lui mille e più partite di pallone nel campetto di erba stenta dei Salesiani. Da lui ricevetti un ovetto Kinder e un invito a visitare una chiesetta lì a due passi, per poi scoprire che non erano da turista le sue curiosità e che della chiesetta nulla gli importava.

Il turismo però entra lo stesso, e a gamba tesa, nell’intreccio, perché furono proprio dei turisti, loro sì interessati alla chiesetta, a evitare il peggio, mettendo lui in fuga e me in salvo.

Quello che mi preme dire, però, comincia adesso, quando la cronaca si ritira.

Come in tutte le storie che vale la pena ascoltare, non conta l’avvicendarsi degli eventi, ma il riverbero che questi hanno sulle nostre vite, sulla natura dello sguardo che gettiamo sul mondo. Dunque lui scappò da una parte e io da quella opposta, troppo spaventata per rispondere alle domande dei turisti, e mi ritrovai sola. Una solitudine amplificata dallo smarrimento, dal non riconoscere nulla di quanto avevo intorno, come fossi in un terra straniera. E in un certo senso lo ero, trovandomi in un posto che non avevo mai visto.

In questo angolo di città, che non era più la città reale ma un luogo inventato dalla mia paura, vidi un burrone, in fondo al quale giacevano le fondamenta di un palazzo ancora in costruzione. Non sapendo come fare a tornare a casa, mi balenò il pensiero di lanciarmi nel vuoto, pensando a quel gesto come alla soluzione più rapida a tutti i miei  problemi. Non era un pensiero triste, ma la soluzione più veloce a un problema che credevo irrisolvibile. Va da se che non volai, ma se sono qui a scriverne è perché da quell’evento posso trarre qualche considerazione interessante sulla grammatica dei ricordi. Ma prima, la coda della cronaca: accantonata l’idea di morire, suonai al campanello di una villetta, dissi il nome della via in cui abitavo e i proprietari mi riaccompagnarono a casa.

Le considerazioni: la prima è che solo ciò che è stato costruito con facilità si lascia smantellare agevolmente, e quell’evento è stato troppo denso e spaventoso, per lasciarsi demolire. Dunque è rimasto, insistendo nella sua permanenza tanto da farsi sballottare dai ricordi, da accettare di essere trasformato, distrutto, ricostruito, immaginato. Forse persino inventato.

La seconda considerazione è che di norma i luoghi sono testimoni affidabili, a differenza dei ricordi, ma anche un luogo può subire la tirannia della memoria che si improvvisa architetto e costruisce, distrugge, butta giù interi palazzi. È a tal punto potente la tirannia dei ricordi da inventare intere cronache passate ed erigere le fondamenta del futuro, facendo coincidere l’invenzione con la memoria.

Perché dico questo? Perché parlando con una persona, molti anni dopo, ho saputo che in realtà, nell’anno in cui mi accadde la “disavventura”, il palazzo era già stato terminato da tempo, dunque nessun burrone davanti alla me bambina, ma una solida costruzione già inaugurata e usurata dal tempo. Il palazzo c’era, ma la mia memoria lo ha buttato giù.

Chiedendomi come fosse stato possibile, mi sono data la risposta che più mi sarebbe piaciuto sentire: creando davanti a me un baratro, il mio cervello mi ha messa davanti a un bivio, offrendomi l’opportunità di scegliere: vivere o morire, fare un passo o restare ferma. Se non lo avesse fatto, se avesse lasciato il palazzo al suo posto, io sarei rimasta viva ma senza la consapevolezza di cosa questo significhi. Senza capire cosa voglia dire poter “fare ritorno”.

Quel giorno feci conoscenza con la morte, e questa scoperta, la possibilità di vederla come una via di fuga, né meglio né peggio di tante altre, fu, in qualche modo, la scoperta della vita, degli infiniti modi in cui si può scegliere di restare. Se c’è una cosa che quel vuoto mi ha insegnato è che vivere è una parola a forma di freccia, e sono i nostri passi a deciderne la direzione.

Sapete poi la vecchia storia per la quale se c’è una pistola nella sceneggiatura poi deve sparare? L’ovetto Kinder, che fine ha fatto? Quello rimase per tutto  il tempo della storia stretto nella mia mano, finché il cioccolato non si ridusse ad una poltiglia che gettai nella spazzatura. L’involucro giallo però restò intatto, e al tramonto di quella giornata di furia e di caos, mi decisi a stapparlo e a valutarne il contenuto: un topolino minuscolo cui bastava dare la corda girando una rotellina ancora più minuscola per farlo correre come un matto. Il topo partiva e sbatteva contro il muro, il rinculo lo faceva indietreggiare, ma poi  tornava alla carica. Guardandolo, mi resi conto che lui poteva andare solo in una direzione e quando incontrava un muro non poteva che sbatterci contro. Io no. E questa fu la vera sorpresa.

Del nostro meglio Carmela Scotti

IL LIBRO E L’AUTRICE – Carmela Scotti, diplomata in pittura e fotografia all’Accademia di Belle Arti di Palermo, ha vissuto a Palermo, a Roma e a Milano, facendo i mestieri più diversi. Oggi vive in Brianza. Con Garzanti ha pubblicato L’imperfetta, finalista al Premio Calvino, Chiedi al cielo e La pazienza del sasso.

Il suo nuovo libro, Del nostro meglio (Garzanti), descrive un complicato rapporto tra madre e figlia, e una perdita dolorosa che si rivelerà l’occasione per una rinascita. Claudia conosce un solo modo per difendersi: cammina armata dei suoi tatuaggi, dei piercing e della musica che rimbomba negli auricolari. Solo così si sente protetta dalla rabbia che l’accompagna fin da piccola. Cresciuta in fretta, senza nessuno che le insegnasse a essere “bambina”, Claudia convive ogni giorno con il peso ingombrante dei ricordi. Quando era solo una ragazzina, un incidente ha messo fine alle grida dentro casa ma anche alla sua infanzia, scavando una distanza incolmabile tra lei e la madre Caterina. Una distanza che l’ha resa solitaria, animale di periferia, e che solo la paziente zia Dora e la migliore amica Vio riescono a colmare, una tendendo l’orecchio, l’altra unendosi al baccano di una “vita spericolata” per le strade della Brianza.

Eppure, diventata madre, Claudia sente che qualcosa non torna, nei suoi ricordi. La visione dell’incidente la perseguita, anche se sono passati tanti anni, e tra madre e figlia resta un muro di omertà che soltanto un atto di coraggio può demolire.

Con la tenacia di chi non ha nulla da perdere, Claudia tornerà a quel passato morto e mai sepolto, scoprendo che fatti e verità quasi mai coincidono, e che nel solco tra i due può sbocciare una possibilità di futuro.

[newsletter]

Fonte: www.illibraio.it