Il nuovo romanzo di Salvatore Basile è un inno al fascino intramontabile del cinema

di Redazione Il Libraio | 22.04.2022

Salvatore Basile è nato a Napoli e vive a Roma, dove fa lo sceneggiatore e regista. Ha scritto e ideato molte fiction di successo, tra cui Don Matteo.

Basile (qui gli articoli di Basile pubblicati da ilLibraio.it) ha esordito nella narrativa con il romanzo Lo strano viaggio di un oggetto smarrito, a cui poi è seguito La leggenda del ragazzo che credeva nel mare, entrambi pubblicati da Garzanti.

Il suo nuovo romanzo, Cinquecento catenelle d’oro, è pubblicato sempre da Garzanti, ed è un inno al fascino intramontabile del cinema.

Cinquecento catenelle d'oro di Salvatore Basile

Le spighe di grano dorato si piegano al soffio del vento. Maria le osserva e pensa che quella terra rappresenta la vita intera della sua famiglia, che la lavora da generazioni. E che, forse, sarà l’unica protagonista del suo futuro. Ma lei vuole di più. Soprattutto ora che ha imparato a leggere, e nuovi orizzonti le si sono schiusi davanti agli occhi.

Maria ha confidato il suo segreto solamente al padre, l’unico a condividere i suoi sogni. Così, quando lui è costretto a partire per l’America in cerca di fortuna, Maria si sente persa, e solo le sporadiche lettere che riceve riescono a riportarle il sorriso. Lettere che raccontano di palazzi alti fino al cielo, di fotografie capaci di muoversi, di treni che corrono sullo schermo. La parola cinematografo è troppo difficile da pronunciare, ma contiene una promessa di futuro. Maria vorrebbe condividere la notizia con tutti, e invece finisce per essere additata come una visionaria, una persona da cui stare lontani. Fino al giorno in cui incontra Domenico, un giovanissimo fotografo in erba, il primo a credere che quello che il padre le ha raccontato sia vero. Per questo vuole trovare una prova, un esempio di quelle immagini che paiono prendere vita. Perché Maria non è una bugiarda, è solo una sognatrice. E i sogni possono far paura. Bisogna essere coraggiosi per accettare i cambiamenti, per non smettere mai di imparare. Insieme, Maria e Domenico possono fare una magia: un telo bianco in una grande piazza pronto a raccontare la storia più bella che ci sia.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo il prologo:

Quando chiudo gli occhi vedo ancora la distesa di grano e sento il fruscio delle spighe che si piegano al vento. Vedo mio padre che ritorna a casa dopo la fatica nei campi e sembra sorgere da quel mare dorato, col suo passo lento.

Io lo aspetto sulla soglia, accanto al catino pieno d’acqua che ho messo al sole quando la campana della chiesa ha rintoccato il mezzogiorno. L’ho tirata su dal pozzo, l’acqua, secchio dopo secchio. Ce ne vogliono nove, per riempirlo, e ogni volta il secchio sembra sempre più pesante. La catena fa male alle mani perché sono solo una bambina di dieci anni. Faccio finta di non sentirlo, il dolore, perché so che mio padre, a metà della salita, affretterà il passo per la voglia di immergere le mani nell’acqua, sciacquarsi il viso, togliersi le scarpe e riposare i piedi nel tepore fino a quando la stanchezza non si scioglie e resta a galleggiare su quel piccolo lago privato insieme alla polvere. I sassolini, invece, vanno giù sul fondo, si sente il rumore: un ticchettio leggero come la pioggia, quando urtano contro il metallo. Restano solo i loro segni sulle piante dei piedi, piccole ferite che si rimarginano durante il sonno.

Mentre papà si avvicina, tuffo le dita nell’acqua per essere sicura che sia tiepida.

Il sole l’ha riscaldata da mezzogiorno fino al tramonto: è il momento che fa finire il lavoro, così come l’alba lo fa cominciare.

Se chiudo gli occhi ricordo che è primavera, e che papà è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita, insieme alle premure della baronessa Matilde, la proprietaria dei terreni di Calandra, ai sorrisi e ai piccoli dolci che mi regala quando vado a farle visita. Mio padre è uno dei suoi mezzadri, semina il grano e la frutta per lei durante l’autunno e l’inverno. In primavera si raccolgono i frutti. A metà estate si taglia il grano. Così scorre il tempo e passano gli anni, anche se tutto sembra rimanere immobile, qui a Calandra.

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Sento il tramestio nella cucina, è mia madre che scalda la minestra sul fuoco del camino, spalle alla porta. Per tutto il giorno ho cercato di essere obbediente, di non farmi rimproverare. Ho rifatto il mio letto, ma prima ho sprimacciato il materasso perché il fieno si è quasi consumato e quando mi alzo dopo il sonno ci resta un vuoto al centro. Forse, a metà luglio, quando mieteremo il grano, papà lo riempirà col fieno nuovo. Ma senza dirlo a mamma, perché lei odia queste comodità: direbbe che sono una bambina viziata e destinata a finire all’inferno.

Mi fa paura, l’inferno. A volte ci penso, di notte, quando non riesco a prendere sonno e sento lo squittio dei topi che cercano da mangiare in cucina. Quelle notti io aspetto l’alba come un sollievo, sento il risveglio di mio padre e posso alzarmi per preparargli il latte e il pane secco. Allora l’idea dell’inferno sparisce insieme ai topi, lui mi accarezza la fronte e si china per darmi un bacio. Lo guardo mentre consuma in fretta la colazione prima di scendere a valle per curare il campo. La testa china sulla ciotola, sembra già stanco per la fatica che lo aspetta. Eppure mi guarda e sorride, mi ringrazia in silenzio, mi porge pezzetti di pane inzuppati nel latte.

Prima di uscire, segna una tacca sul ceppo di legno poggiato alla parete. È il suo calendario: ogni ceppo dura un mese, poi è destinato al camino, sostituito da un nuovo ceppo, che segna un altro mese. Dodici ceppi ogni anno e tante tacche su ciascuno, quanti sono i giorni di ogni mese.

Così ho imparato a contare i giorni.

Così ho imparato a fissare nella mente le giornate che mi hanno cambiato la vita.

1.

16 aprile 1894

Mio padre ancora non torna, il sole è già tramontato da un pezzo e temo che l’acqua nel catino non sia più tiepida. Poi lo vedo, ha tra le mani una cesta di vimini e sento che porta con sé, insieme all’odore denso del sudore mescolato alla polvere, anche un profumo di fragole.

La cesta ne è piena.

«Quest’anno le fragole sono spuntate prima del solito…» mi dice porgendomele. «Quasi da un giorno all’altro, Mari’.»

Afferro la gerla, mentre lui si sfila le scarpe e poi immerge le mani nell’acqua.

L’ultima tonalità di rosso del tramonto sembra sfiorare in una carezza l’identico colore delle fragole prima di scivolare giù, dietro le montagne. Ancora una volta mi stupisco nel sentire come l’aria diventi immediatamente fredda appena le prime ombre della sera si presentano nel cortile. Mi volto verso casa per assicurarmi che mia madre non mi veda, poi, incoraggiata da un cenno di papà, prendo una fragola e l’assaggio. È aspra e dolce allo stesso tempo.

«Queste so’ buone fra nu paio di giorni, debbono cacciare un poco di zucchero da dentro. Metti la metà dentro a un piatto e portaci il resto a donna Matilde, prima che si fa buio», dice mio padre.

Poi infila i piedi nell’acqua e sospira di piacere. Guardo i suoi lineamenti che si rilassano.

Ogni volta mi sembra che la sua stanchezza si tuffi nella tinozza per liberarlo dal suo peso e, ogni volta, mi sento fiera di avergli preparato quell’acqua, di aver controllato che si riscaldasse al sole, di aver fatto qualcosa di buono per lui.

Entro in casa con la gerla tra le mani. Prendo un piatto dalla credenza e verso la metà del contenuto.

«E mo che ci tieni da fa’ con quelle fragole?»

Mi volto verso mia madre. Ha smesso di rimestare nel pentolone e mi fissa con quello sguardo che non ammette risposte che non le piacciano.

«Papà dice che la metà ce la devo da portare alla baronessa Matilde.»

La risposta non le è piaciuta, è chiaro.

«E già… mo la baronessa tiene bisogno proprio delle fragole nostre», sibila, guardandomi come se aspettasse ulteriori spiegazioni.

Abbasso lo sguardo, prendo la cesta e mi avvio verso l’uscita. Lo so che domani me la farà pagare, appena saremo sole. Avrà toni duri, controllerà ogni mia mossa e mi criticherà anche se farò bene. So che mi farà sentire responsabile della sua infelicità e, allo stesso tempo, andrà a cercarla, l’infelicità, come un cibo di cui non può fare a meno per sentirsi viva. E io obbedirò senza fiatare, nella speranza di farmi voler bene, di strapparle un sorriso o almeno una tregua. Molti anni dopo, avrei capito che quella voglia di essere accettata altro non era, in realtà, che il tentativo di volerle bene, di sentirla nel cuore, almeno per una volta.

Con mio padre, invece, si limiterà al silenzio per tutta la serata. Glielo schianterà sulle spalle, consapevole che il silenzio è l’arma migliore per farti sentire in colpa, più di un’accusa dichiarata. Perché da un’accusa dichiarata ti puoi difendere con le parole; il silenzio, invece, non ammette repliche.

Fuori non è ancora buio. Mi arrampico lungo la mulattiera e qualche centinaio di metri dopo arrivo nel cuore nel paese.

A quest’ora Calandra è deserta, sono tutti chiusi in casa in attesa di consumare la cena. Le finestre sono sbarrate ma il fumo che spunta dai camini testimonia la vita all’interno delle cucine. Le lampade a petrolio della locanda di don Bastiano mi guidano verso la piazza, sento le voci degli avventori provenire dall’interno, insieme al tintinnio dei bicchieri e delle stoviglie. Qualcuno sta intonando una canzone, incoraggiato dal vino o da un’allegria che, dentro il silenzio delle strade, mi appare immotivata, una pazzia.

Eppure mi ci aggrappo come a una speranza, alle parole di quella canzone, a quel dialetto che capisco appena perché proviene da una città lontana.

Li quarte d’ora sonano

A uno, a ddoie, a ttre:

Io te voglio bbene assaie

E tu nun pienze a mme…

Penso a quando mi chiederanno in moglie e, dentro di me, spero che ciò non accada mai. Ho solo dieci anni, ma mia madre dice che è già ora di pensare a qualcuno a cui promettermi, che non possono mantenermi per tutta la vita, che a quattordici anni lei era già sposata e mi aspettava. Così è la vita, così dev’essere anche per me. Ha il suo corredo intatto, l’ha conservato per me come dote: lenzuola, federe e alcune pentole mai usate. Il compenso per chi accetterà di prendermi in casa a cucinare e rassettare per lui, a fare figli maschi da usare nei campi, ché almeno i figli maschi sono un aiuto, le femmine sono solo «mali pensieri» e spese. Io non capisco come mia madre possa parlare così delle femmine. Come se lei si considerasse un discorso a parte. Come se disprezzandole riuscisse a sentirsi diversa, superiore.

A volte penso di voler morire prima di prendere marito. Il pensiero di dormire con un uomo, un estraneo, di farmi mettere le mani addosso per fare «quelle cose» mi terrorizza. Ma questo non lo sa nessuno, neanche papà, perché non voglio dargli anche questa preoccupazione.

(continua in libreria…)

 

Fonte: www.illibraio.it