Il tempo è un mistero affascinante e complesso per Clara Sánchez, è un concetto sferico che accoglie tutto, collega i sentimenti, spinge avanti nel futuro con l’immaginazione, e indietro nel passato col ricordo. Difficile dare dei contorni netti al qui e ora, dare un senso al presente che sembra non andare da nessuna parte.
Ci si trova a dover scegliere una strada, e lo si fa comunque, vivendo: lasciar passare il tempo o attraversarlo? Fermarsi a riflettere, a scandagliare, o andare, senza registrare i momenti? Pensare o lasciare che sia il corpo a sentire e decidere?
La protagonista de Il primo respiro dopo la pioggia (Garzanti, traduzione di Enrica Budetta) dà voce a questi pensieri dell’autrice, in una riflessione autobiografica, umana e sentimentale, che cerca di decriptare la vita e le sue difficoltà.
Una donna di quarant’anni si sente improvvisamente consapevole di un bisogno di analisi, di ordine di quelle istantanee della sua esistenza che si sono accumulate una sull’altra, negli anni. Si accorge di come siamo spinti dalla corrente di un fiume, inconsapevoli e abbandonati, prima di incontrare uno scoglio a cui aggrapparci, e di come viviamo distratti il nostro tempo, convinti che non sia mai il momento della resa dei conti, sordi all’idea che la vita non dipende da noi e ci può sorprendere alle spalle.
“Succede quello che succede e ci sorprende. Questo rientra nella parola «vita». Mi faceva paura che la vita trafficasse così tanto per conto suo”.
L’io narrante ha vissuto galleggiando tra le cose e le persone senza possederle, sicura nella ripetizione delle sue giornate, in una routine confortevole e rassicurante. È il fascino della permanenza, quella zona di comfort abitudinario in cui si pensa di poter stare per sempre, anche se non tutto è come vorremmo. Il suo lavoro è sempre uguale, un ufficio opprimente ma familiare, suo marito Mario è sempre in viaggio, e si allontana ogni giorno di più, pur rimanendo un’idea di presenza nella testa di lei, i genitori sono invecchiati, quasi senza accorgersene.
La routine è comoda, ma cancella i confini della propria identità, e in questo assomiglia all’amore: ci si dissolve piano piano, giorno dopo giorno, annullandosi nell’altro, o illudendosi di trattenere il tempo.
Nel cuore della protagonista c’è Cati, la sua amica, c’è Mario, il marito assente: entrambi così diversi da lei, lanciati nel mondo, indifferenti all’analisi, allo scandaglio, capaci di farsi vento, decisi a prendersi la vita. Ognuno ha la propria idea di libertà, ognuno ha il suo tempo.
“Tutto ciò che toccavo io diventava permanente nella mia vita. Tutto ciò che toccavano Cati o Mario si dissolveva nell’aria. Loro cercavano di avanzare con il tempo, mentre io non ci sono mai riuscita”.
Poi arriva di colpo, lo schianto: per la protagonista è un ictus che colpisce la madre. Due mesi in ospedale sono un susseguirsi di notti, di tempo reso tangibile e spietato dalle scadenze delle terapie e degli esami, ore passate su una poltrona, a guardare quel viso così noto, e all’improvviso sconosciuto. Perché la madre è sempre stata l’idea stessa della solidità, anche lei permanenza, la dea della sicurezza: forte, incrollabile, dedita al proprio dovere, e soprattutto presente a lei, figlia per sempre. Ma in quel letto giace non più la dea-madre, giace una donna, fragile, incapace di parlare, di muoversi. È la scoperta della realtà, il passaggio attraverso il muro della verità, che l’imprevisto della malattia fa varcare.
E nelle notti di ospedale, la figlia guarda dalla finestra nel buio della notte, guarda un boschetto di pioppi e ripensa alle immagini dell’infanzia, a un’estate al mare, per ridare forma all’idea stessa di sua madre, e riscoprirla. Emerge la figura di una donna giovane, sempre seria, che si tiene i capelli nel vento, e insieme trattiene i pensieri e le fantasie a cui non concede spazio, perché “nella vita bisogna sopportare molto”. Ma in quel buio, nel silenzio colmo di attesa, la protagonista si interroga su quelle rinunce, su quelle responsabilità, sul matrimonio dei suoi genitori che tiene comunque da quarant’anni, ma soprattutto si trova da sola con se stessa, senza la sua routine, senza protezione. Il dolore è uno specchio.
“La notte uniformatrice mi impediva di fare distinzioni. La notte era un deserto, non aveva limiti. E la solitudine era un deserto o una notte. In quello spazio smisurato non vedevo nessun altro a parte me”.
Alla fine, non importa quante cose siamo riusciti a fare o a quante abbiamo rinunciato, si arriva lì: al punto in cui un evento improvviso fa da demarcazione esibendo ciò che è evidente, che siamo mortali, animali come tutti gli altri e in questa malinconica oggettività c’è tutta la vulnerabilità umana messa a nudo e portata in superficie. In quell’ospedale, in quella scatola di verità, la protagonista non trova solo la consapevolezza della caducità, ma trova un mondo autentico. La realtà prende forma nella camicetta azzurra con cui la madre torna a casa dall’ospedale, sillabando “foglia” e “acqua”. La dea ritorna, viva ma diversa, reale, mortale e la figlia su quella linea di confine in cui il dolore improvviso l’ha spinta, accetta di affrontare quel buco nello stomaco che ignorava, prendere in mano la sua vita e ridare concretezza al suo tempo.
Il primo respiro dopo la pioggia è il lavoro di una Clara Sánchez inedita che si sofferma sui bilanci più intimi, condividendo introspezione e una riflessione acuta sull’esistenza: la verità della vita è violenta, accettarla è l’avventura più difficile, incomprensibile, e si chiama crescita. Nel tempo presente confluisce tutto, gli attimi che siamo stati e che in qualche modo ci hanno portato qui, ora: il tempo merita rispetto, la speranza di un respiro nuovo per guardare avanti, abbandonare le zavorre, e continuare ad andare, ognuno col suo modo, e la sua velocità.
“Questa vita con la sua superficie e la sua profondità, come anche il mare ha la propria superficie e il proprio fondo, è incredibilmente l’unica cosa che c’è. Una cosa molto semplice che sa chiunque, per quanto non capiamo niente”.
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Fonte: www.illibraio.it