“Il papà fa l’autista perché non ha finito le scuole e ora non potrà più finirle, perché deve lavorare affinché tu e io possiamo finirle…la scuola è tutto per la gente come noi. Se non andiamo bene a scuola, non abbiamo nessuna opportunità al mondo”, spiega Neni al figlio di sei anni a meno di cento pagine dall’inizio di Siamo noi i sognatori, dell’autrice camerunense Imbolo Mbue (Garzanti, traduzione di Stefano Beretta).
Neni vive in America da diciotto mesi. Con il figlio ha raggiunto il compagno Jende e finalmente lo ha potuto sposare. Suo padre, infatti, ha permesso le nozze solo dopo che Jende ha guadagnato abbastanza per versare la somma di denaro dovuta alla famiglia della sposa.
A New York Neni studia per diventare farmacista e lavora come badante. Suo marito ha appena trovato un lavoro ben pagato come autista degli Edwards, una coppia di Manhattan. Insieme guadagnano 45.000 dollari l’anno, e in 12 mesi sperano di riuscire a mettere da parte 5.000 dollari. Nel giro di un decennio auspicano di potersi permettere una casa loro, fuori da New York. Sperano anche che Jende riceva presto la green card, nonostante siano anni che sta facendo richiesta del papier che lo renderebbero americano.
Jende e Neni hanno un tratto caratteristico dei genitori che iniziano una nuova vita all’estero: più e più volte dimostrano di volere il meglio per il figlio, con un’ostinazione quasi commovente. Tutti i loro sforzi sono mirati a permettere al figlio quello che loro non hanno avuto. Jende, infatti, proviene da una famiglia poverissima che tuttora lo contatta per chiedere aiuti economici, mentre il padre di Neni un tempo era benestante, ma ha sprecato gran parte del denaro.
Imbolo Mbue con Siamo noi i sognatori si inserisce in un filone già percorso tra gli altri da Chimamanda Ngozi Adichie con Americanah ma, a differenza della protagonista del suo romanzo, che studia a Princeton e può fare affidamento sul suo visto da studente, Jende e Neni rappresentano l’altra faccia del sogno americano. Dimostrano, infatti, come il lavoro duro in realtà non sia sufficiente per trovarsi un posto nella società statunitense.
La dicotomia tra la famiglia di Jende e gli Edwards è palese: Clark Edwards è un pezzo grosso di Wall Street, la moglie una nutrizionista con complessi di inferiorità che si sente trascurata dal marito, i figli frequentano le migliori scuole della città. Tuttavia nascono dei segreti che legano le due famiglie. E quando la borsa crolla – siamo nel 2008, l’anno in cui Lehman Brothers ha annunciato bancarotta in seguito alla crisi dei subprime – le sorti delle due famiglie si legano ancora più strettamente.
Jende e Neni, però, vivono nell’ombra, in una zona grigia, nell’incertezza di un domani in cui i documenti potrebbero scadere senza essere rinnovati, in cui le borse di studio di Neni potrebbero essere rifiutate. Gli Edwards, invece, sono rassicurati dai loro privilegi: sono bianchi, ricchi, di successo.
E se il sogno di Jende è vivere in America, “il paese più bello del mondo, dove chiunque può diventare qualcuno lavorando e desiderandolo davvero”, Vince, il figlio maggiore degli Edwards, vuole scappare dalle costrizioni sociali e dalle pressioni a cui è soggetto nel suo paese: figlio di un uomo di successo è destinato a seguire una carriera tanto sfavillante quanto quella del padre.
Accanto alle due coppie si muovono personaggi pittoreschi, come l’amica di Neni che vive da venticinque anni negli Usa e ormai ha uno sguardo disilluso sul sogno americano, o le ricchissime e competitive conoscenti di Cindy Edwards. E ancora, l’avvocato nigeriano che si occupa della richiesta di cittadinanza di Jende.
Il risultato è un quadro spaccato in due: da un lato il mondo abitato da Jende e Neni, dall’altro l’universo degli Edwards. Due realtà che si incontrano solo quando Jende guida la Lexus degli Edwards e Neni lavora saltuariamente come governante per la famiglia.
Alla sua uscita negli Stati Uniti Siamo noi i sognatori ha ricevuto il plauso Oprah Winfrey. Il perché non è difficile da comprendere: in un solo romanzo è racchiusa l’epopea di una famiglia in un paese straniero, con tutte le difficoltà e le barriere culturali che ciò comporta. E accanto ad essa si gioca una battaglia per il potere: dello stato sugli immigrati, della famiglia sui figli, della società sull’individuo, del datore di lavoro sul dipendente, del marito sulla moglie.
Fonte: www.illibraio.it