La prima volta in cui ho visto la neve – di Matteo Porru

di Matteo Porru | 05.02.2023

La prima volta in cui ho visto la neve avevo nove anni e un grembiule blu scuro sporcato dal gesso. “Maestra, il cielo cade”, e maestra Roberta ci fece vestire di corsa e ci portò in cortile -giù per le scale, poi a destra, e a destra la scuola era tutta in delirio-, perché la neve a Cagliari non cadeva da decenni -e, dopo quella mattina, non sarebbe tornata più-.

C’era chi tirava fuori la lingua, chi rincorreva le nuvole, chi pensava venisse giù a palle, o comunque a blocchi, e stava pronto come ad afferrarla, a tirarla giù. Io a destra ci arrivai quasi per ultimo e quando la fissai, la neve, quando la vidi volare, rimasi stupito dal fatto che non facesse rumore. Il vento faceva rumore, gli altri grembiuli facevano rumore, facevano rumore le urla delle maestre e le risate dei bidelli, le macchine per strada e la campanella dell’ora, la gente che si affacciava dai balconi e i pedoni sorpresi nelle strade; facevano rumore i cani, i padroni, i motorini, i venditori, gli amanti, i bastardi, tutto il mondo faceva rumore. La neve no.

Il giorno dopo -un sabato, io il sabato lo avevo libero perché facevo il tempo pieno- mamma e papà caricarono in macchina me e mio fratello per farci fare una gita fuori porta in montagna. Non eravamo mai stati in montagna. Della montagna -o meglio, del concetto di montagna-, sapevo solo quella riga di definizione a pagina trenta del libro di geografia, che la montagna “supera i seicento metri sul livello del mare”.

Salimmo a più di mille metri. E il mare non si vedeva. Non si vedeva niente, assolutamente niente, se non il bianco. Erano bianchi il terreno, gli alberi, la strada, ma quel colore non apparteneva a nessuno di loro, non era quello vero ma lo copriva, lo annullava. Fu in quel momento che iniziai a intuire la cattiveria della neve -più avanti, negli anni, l’avrei capita meglio- e quella sua tendenza, malata e silenziosissima, a cancellare. E mi affascinò. Perché dietro l’euforia, quell’euforia esagerata dei miei compagni e della stragrande maggioranza delle persone che si inteneriscono pure davanti all’immagine di un fiocco, c’era una subdola e sottilissima perversione: gli uomini amano tutto ciò che nasconde -e uniforma- le cose. Mi restava solo da capire perché.

E ho iniziato a capirlo la terza volta in cui ho visto la neve: in Germania -ho passato un anno della mia vita in Germania, per storie poco felici-, a Luneburgo, in una clinica privata, da una camera del reparto di pediatria. E l’ho capito quando ho visto, per la prima volta, un uomo che spalava. Non mi colpì l’atto dello spalare -era un atto meccanico, sterile, muovere la pala e spostare la neve dal viale-. Mi colpì l’accumulo, e il fatto che quell’uomo accumulasse il bianco sempre e solo in un posto, e se faceva una montagnetta la appiattiva, e se si allargava la conteneva.

E allora mi venne in mente un’idea: in un mondo bianco e innevato -dove la neve copre le cose, le fa dimenticare-, cosa accadrebbe se un uomo spalasse la neve -e quindi ricordasse-? Perché, e fino a che punto, gli uomini amano tutto ciò che nasconde le cose? Perché la neve non fa rumore?

Ne parlai con le mie infermiere -Gesa e Sabrina-: das ist philosophisch, dissero entrambe. Per me era solo una storia, una delle tante che mi venivano in mente, e la archiviai come tale. Fino a quando non vidi, per la quarta e decisiva volta, il cielo cadere. E fu quando mi innamorai davvero. Venne giù a fiocchi, e scesi le scale, e poi andai a destra, e tirai fuori la lingua e rincorsi le nuvole. E capii che gli uomini amano ciò che nasconde le cose perché è l’unico modo che hanno per controllare il dolore -e, con lui, tutte le altre emozioni-.

Tornai a casa e aprii un file Word. Si chiamava “Il dolore crea l’inverno”.

L’AUTORE E IL LIBRO – Matteo Porru, classe 2001, ha vinto nel 2019 la sezione Giovani del Premio Campiello, ed è editorialista per i quotidiani del gruppo SAE. Scrive inoltre per il cinema e per il teatro.

Il suo nuovo romanzo, in uscita per Garzanti, è  Il dolore crea l’inverno, un libro che parla di Elia Legaosv, nato in un paese circondato dal bianco e dalla neve, un paese da cui non è mai andato via. Spalare la neve è il suo lavoro, liberare strade che nessuno camminerà è la sua missione. La neve è sua amica, fino a quando non lo tradisce. Fino a quando non fa emergere dalle sue profondità qualcosa che doveva restare sepolto, e che ha a che fare con la famiglia di Elia. Da quel momento la sua mente si affolla di ricordi che lui aveva soffocato. Parlano di un padre scomparso tanti anni prima e di una madre andata via per sempre. Sono parole dolci, gesti delicati, sorrisi sinceri. Ma sono anche duri come il ghiaccio che nessuno può rompere. E dolorosi. Ora Elia crede davvero a quello che si dice della sua famiglia: la neve non li protegge, ma li tenta, li provoca da sempre, per vedere se sono capaci di dimenticare, perché tutti dimenticano, ma i Legasov ricordano, sempre. È arrivato il turno di Elia di ricordare. Qualunque ne sia il prezzo.

[newsletter]

Fonte: www.illibraio.it