È lui che mi chiede di parlare.
Io, se devo dirla tutta, non ho tutta questa voglia, sono stanco, piove, ho fame, è sabato sera e la mia squadra del cuore ha appena perso in casa in modo orribile.
Ok, parliamo, gli faccio. Che succede?
Ha sedici anni. Già dal suo nome dovrei capire che non è uno “normale”: si chiama Ismaele. Sì sì, proprio come quello là: chiamatemi Ismaele.
Balbetta un po’, ma non perché abbia la balbuzie o che: semplicemente ha così tanta roba lì dentro che gli si ammucchia tutta sulle labbra prima di uscire, crea un ingorgo, viene fuori a scatti come le macchine ai caselli nell’ora di punta.
“Non riesco più a trovare motivazione in quello che faccio”, mi dice.
Non mi ha mai visto, non sa chi io sia, mi ha solo sentito parlare per un’ora dentro un palazzetto, e adesso è qui, davanti a me, e mi spiattella una cosa così grande.
Siccome c’è molto rumore, gli chiedo di spostarci in un posto dove si riesca a parlare.
Camminiamo e dopo un po’ poi troviamo uno spogliatoio libero. Dentro, vestiti e scarpe e io e lui, un più che quarantenne e un sedicenne che non si sono mai visti.
“In che senso non trovi più la motivazione?”, gli faccio.
E mi racconta che lui fin da piccolo si è sempre divertito a smanettare coi computer, ad assemblarli, a programmare, e che si è iscritto per questo a una scuola dove pensava di poter sviluppare questa sua passione.
“Ok, e qual è il problema?”
Ci mette un po’ a formulare un pensiero, a farmi capire come si sente. Va per tentativi, diciamo, mentre io, lo ammetto, sto pensando al mio stomaco che brontola.
Però poi ce la fa, e quando ce la fa mi fulmina:
“È che mi sembra sempre che a scuola mi vogliano trasformare in uno normale”.
Sai quando ti pare di sentire dentro di te una voce che dice SBAM?
Ecco, SBAM.
Quelle parole sono per lui come un tappo che si stappa, poi diventa fiume in piena e non balbetta quasi più. Non va male eh, ma a scuola gli viene chiesto di fare solo cose molto stantardizzate (cit.), di adeguarsi ai programmi e via dicendo, in più sembra che tutto ruoti intorno ai voti che prendi (sempre cit.).
Mi dice che vorrebbe tanto studiare il problema della privacy, di come i nostri dati viaggino in rete senza controlli, ma a scuola sua non se ne parla se non superficialmente.
Vuole mollare tutto, sente che tutto questo gli sta facendo spegnere anche la passione che aveva sempre avuto, quella per i computer.
A quel punto mi verrebbe da abbracciarlo, ma siamo in due da soli dentro uno spogliatoio, di cui uno un minore, mi sembra un pelino pericoloso sai mai. Però al cibo non ci penso più.
A cosa penso, invece?
Che Ismaele ha ragione. Che è proprio così molto spesso, troppo spesso: entri a scuola che sei speciale, esci che sei normale.
Entri che sei un unico, con passioni tutte tue, con sogni tutti tuoi, ed esci che sei uno come tanti. E a volte senza più passioni, senza più sogni.
Naturalmente adesso mi aspetto pletore di colleghi che diranno NON È VERO IO NON SONO COSÌ SEI SEMPRE IL SOLITO CHE SPARA A ZERO SULLA SCUOLA.
Non mi interessa.
Quella che ho riportato è la voce di un ragazzo che lo vedevi lontano chilometri che aveva un talento. E la scuola italiana gli ha fatto spegnere la passione. Non c’è molto da discutere su questo.
Il primo passo per risolvere i problemi è vederli, no? E allora guardiamolo per bene in faccia, questo problema.
Quanti sono i ragazzi come Ismaele? Quelli che avrebbero un milione di cose da dire, e nessuno che li ascolti davvero? Quelli ad alto potenziale, che nella nostra scuola non trovano spazio proprio perché, come dice lui, “Mi sembra sempre che a scuola mi vogliano trasformare in uno normale”.
“Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune”, scriveva Sandro Penna nel 1950.
Non voglio tirare in ballo i numeri impietosi sulla dispersione scolastica, ma solo fare una domanda: e se fosse che molti di quelli che mollano la scuola fossero come Ismaele? E se non fosse solo perché “non hanno voglia” o perché provengono da realtà difficili, ma proprio perché hanno talenti che la scuola tende solo a (cit.) standardizzare?
I famosi vasi da riempire, i fuochi da accendere. Ma i fuochi da ravvivare permettendo loro di trasformarsi in incendi? Perché ci dimentichiamo così spesso di loro?
Parliamo spesso di ragazzi difficili, dei più deboli, di chi ha disturbi dell’apprendimento, ma perché parliamo così poco di tutti quelli che, come Ismaele, avrebbero grandi potenzialità ed entusiasmo ma verso cui la scuola si trasforma in vasi pieni d’acqua contro il loro fuoco?
L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti) Eppure cadiamo felici, Tutta la vita che vuoi, Felici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazzi, La società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti. Il suo nuovo romanzo è Geografia di un dolore perfetto (Garzanti).
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Fonte: www.illibraio.it