Nel nuovo libro, “Due in condotta”, Alberto Maggi ricorda: “Quando decisi di diventare prete, ebbi tutti contro…”

di Redazione Il Libraio | 09.04.2019

SETTE FIORENTINI

A ventidue anni presi la decisione di lasciare il lavoro per diventare prete. Nessuno mi credette e molti scommettevano su quella che sembrava una delle mie tante bizzarrie. Gli amici mi davano del pazzo: «Lasciare un posto fisso di questi tempi!». Fu una scelta rischiosa, perché lasciavo un lavoro sicuro senza avere alcuna certezza di quel che avrei trovato.

Fu un periodo molto difficile e doloroso, ebbi tutti contro.

Lasciai la mia fidanzata, dopo quattro anni di fidanzamento, e non fu facile, anche perché lei non credeva minimamente alla mia vocazione, e pensava avessi un’altra donna, e che l’abbandonassi per questo. Visse male la fine della nostra storia d’amore e purtroppo sprofondò nella depressione, o nell’esaurimento nervoso, come si chiamava a quel tempo. Questo mi addolorava, perché le volevo veramente bene, tanto, il mio sentimento per lei non era mutato e non volevo farle del male, ma come farle capire che c’era ormai una realtà ancora più forte e potente dell’amore per lei e che non era un’altra ragazza?

Anche il prete che mi seguiva mi rimproverò aspramente, mi disse che ero stato precipitoso, che ero stato ingiusto e che avevo fatto molto male a lasciare la fidanzata, e causarle tutto quel dolore. Replicai che volevo diventare prete, ma lui mi impose di attendere ancora un anno, per verificare se fosse un entusiasmo passeggero o una vera vocazione, e che comunque, per un anno, non voleva più incontrarmi (per tattica pedagogica spirituale o per paura delle botte di mamma?).

Così mi ritrovai all’improvviso completamente solo, senza neanche la preziosa guida di colui che mi aveva seguito e sorretto nel mio cammino nella fede fino a quel momento. Mi sentii smarrito, provai il senso dell’abbandono, dell’incomprensione, della solitudine, senza una bussola che mi indicasse la strada da percorrere.

Ma ormai non desideravo altro. E da solo provai a cercare la strada per realizzare quel che sentivo prepotente dentro di me: essere prete. Da subito scartai la possibilità di diventare un prete diocesano (parroco), ma frate, e cominciai a frequentare gli ambienti gestiti dai religiosi per conoscerli più da vicino. Tuttavia, non trovavo nulla di adatto a me. In ogni ordine o congregazione religiosa, la figura del fondatore metteva in secondo piano quella del Cristo. «Perché come ha detto il nostro fondatore…» o «nella regola del fondatore…» poi seguiva Gesù e il suo vangelo. Visitai diverse realtà religiose, dalle più antiche alle più moderne, ma ovunque era lo stesso: il fondatore. Io però volevo seguire Gesù Cristo, non un fondatore.

In ufficio c’erano due colleghe che (allora non lo sapevo) erano consacrate laiche di un istituto religioso dei Servi di Maria; mi parlarono di quest’ordine antico, che risaliva al XIII secolo. Un ordine alquanto originale, perché non aveva un fondatore, ma sette! Era nato infatti da una comunità di laici fiorentini che si unirono insieme nel servizio alla Vergine Maria. Quel che più mi incuriosiva e attraeva era che, non essendoci un unico fondatore, ma una comunità di uomini tanto diversi l’uno dall’altro, non avevano neanche scritto la regola, pertanto in quest’ordine c’era chi viveva da monaco e chi missionario, chi nei santuari e chi nelle favelas, ognuno secondo le sue particolari doti e aspirazioni, ma tutti uniti dal senso della famiglia. Mi piacque, pensai che facesse al caso mio, perché non essendoci un solo fondatore ma sette, qui non si poteva affermare «come ha detto il fondatore» e ritenni che mi fosse più facile seguire il Cristo.

Cominciai così a frequentare i frati Servi di Maria di Ancona, per conoscerli meglio. Mi piaceva questo ordine, piccolo, ma proprio per questo con il calore della famiglia, dell’accoglienza, e iniziai a frequentare assiduamente la loro parrocchia. Poi, arrivato l’inverno, presi una settimana di ferie e andai a conoscere il luogo dove era nato l’Ordine dei frati Servi di Maria, a Monte Senario, nei pressi di Firenze, per vedere da vicino questa realtà. Come potevo dire ai miei che sarei andato a trascorrere le vacanze in un convento? Come spiegarlo? Era ancora presto per informare la famiglia della mia decisione. Così dissi loro che andavo con degli amici a sciare in Toscana, e partii con lo slittino per la neve.

Trascorsi nel convento di Monte Senario una settimana intensa, ricca, ritmando le giornate con il cadenzare delle preghiere, del lavoro, del silenzio e della fraternità. I frati erano amabili, generosi, grandi nella loro semplicità. Sentivo sempre più forte dentro di me il desiderio di appartenere a questa famiglia religiosa. C’era però un problema… non nevicava… e io avevo portato con me la macchina fotografica per testimoniare ai miei che ero stato in montagna a sciare. Così, il giorno prima di tornare a casa, il priore con l’auto percorse decine di chilometri nelle montagne attorno Firenze, alla ricerca di qualche spiazzo con un poco di neve, che con qualche particolare inquadratura potesse sembrare una pista da sci.

Quando tornai a casa e sviluppai il rullino e mostrai le foto ai miei, mia sorella, pestifera, vedendo altri giovani con me, esclamò: «Ma questi sono preti!». Eppure non indossavano l’abito religioso, erano vestiti normalmente, ma mia sorella, la streghetta, l’aveva intuito.

L’anno di attesa e di prova che mi era stato imposto trascorse, la mia ex ragazza trovò un altro fidanzato, e questo mi tranquillizzò. Ero deciso più che mai a voler entrare nella vita religiosa.

Non vedevo l’ora di far parte anch’io di questa realtà. Per non perdere tempo acquistai una grammatica della lingua latina per avvantaggiarmi poi nello studio del latino che non conoscevo.

Cominciai anche a leggere i vangeli, che però abbandonai ben presto, perché mettevano in crisi la mia nascente fede. Abituato a una vita pratica, concreta, mi sembrava di leggere un libro di favole, con diavoli dispettosi e angeli svolazzanti, Gesù che cammina sulle acque, moltiplicazioni di pani, morti che risuscitano… mah! Racconti che ritenevo inverosimili e comunque poco credibili e che cozzavano con la logica e il buon senso. Il brano che mi spinse a chiudere i vangeli e a non leggerli più fu quello del vangelo di Marco: al capitolo 11 l’evangelista scrive che Gesù vedendo un fico ebbe fame, cercò un frutto, ma trovò solo foglie, e così lo maledisse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!». Già questo atteggiamento di Gesù mi sconcertava, ma il colmo fu leggere il commento dell’evangelista: «Non era infatti la stagione dei fichi…» (Marco 11,12-14). Mi rifiutai di proseguire. Come poteva Gesù prendersela con un povero albero per il fatto di non avere frutti fuori stagione? Per questo accantonai i vangeli, che non capivo, e lessi le più facili, e per me comprensibili, vite dei santi. Anni più tardi, quando con lo studio ebbi gli strumenti necessari per comprenderli, il primo brano dei vangeli che volli studiare ed esaminare fu proprio questo del fico, che non avevo ancora digerito, e scrissi un libro dal titolo Come leggere il vangelo e non perdere la fede (Cittadella, Assisi 1997), proprio per aiutare a comprendere i vangeli e il loro linguaggio. Gli evangelisti, infatti, non intendono trasmettere dei fatti, ma delle verità, i loro scritti non riguardano la cronaca, ma la fede, la teologia e non la storia.

IL NUOVO LIBRO – Dopo aver raccontato con candore e allegria dei giorni trascorsi tra interventi chirurgici, terapie e speranze in Chi non muore si rivede, il biblista Alberto Maggi risponde alle tante richieste dei lettori, curiosi di conoscere il resto della sua incredibile vita. Riprendendo così il filo interrotto dei ricordi, nel suo nuovo libro, l’autobiografico Due in condotta (sempre pubblicato da Garzanti), offre un ideale album di istantanee per scoprire aspetti inediti e sorprendenti dell’autore: il bambino ribelle in un’Italia del Dopoguerra più povera ma ricca di speranza, una scuola non sempre capace di contenere tutto il suo entusiasmo, le grandi letture adolescenziali, la scoperta dell’amore, i primi lavori da dattilografo, fino al riconoscimento della sua vocazione e alla scelta – in un primo momento osteggiata da una famiglia incredula – di diventare frate. Condividendo la sua storia con l’incontenibile gioia che lo contraddistingue e senza mai scivolare nella nostalgia, Maggi indica la strada per rispondere sempre con il sorriso alle difficoltà che ci impone la vita, per non arrenderci mai alle avversità e continuare sempre a combattere per i nostri sogni e per la felicità nostra e di chi ci sta accanto.

Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri:il già citato Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita Di questi tempi.

Qui tutti gli articoli scritti da Alberto Maggi (foto di Basso Cannarsa, ndr) per ilLibraio.it.

Fonte: www.illibraio.it