“A Ida adulta!”. Ha il gusto del Morellino il brindisi che festeggia l’ingresso di Ida nel mondo: un lavoro quasi vero, uno stage, in un’agenzia di comunicazione che fa digital marketing. È un inizio, che non ha a che fare con la sceneggiatura, con la scrittura, con l’arte, con quello che Ida sognava con il suo diploma alla scuola di cinema. Fatto sta che è quello che Milano offre, una promessa di un posto fisso, per chi ce la fa, viaggi in metropolitana la mattina, occhi appannati come tutti, una scrivania, e un incarico, social media manager, di cui Ida non conosce il significato e l’utilità. È un po’ scrivere anche quello, ma, come dice il suo ex professore e mentore “Uno sceneggiatore, come copywriter, muore”. E Ida, varcando per la prima volta le porte dell’agenzia Meeto, si sente un po’ morta dentro.
Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti) di Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio ha una protagonista venticinquenne, neolaureata, single, stagista, coinquilina, fuorisede a Milano. Un’eroina.
“Un lavoro. Forse è questo che significa diventare adulti. Ti siedi qui, lo accetti. Non farai quello che avresti voluto fare, non sai quello che avresti voluto essere. Ma sarai qualcuno”.
Con il vuoto nella mente, e i postumi della sbornia, Ida si trova in un universo nuovo, fatto di colleghi indaffarati e annoiati allo stesso tempo, complici tra di loro, indifferenti a lei, la stagista, qualunque sia il suo nome, a loro agio con un linguaggio che Ida non comprende: e non sono solo gli inglesismi a raffica, assessment, user journey, affordable a farli sentire distanti, alieni. Mentre sente parlare di contenuti che performano e di trend topics, Ida si rende conto che il linguaggio che non parla è quello della partecipazione, del gruppo.
L’APPUNTAMENTO CON LIBLIVE SULLA PAGINA FACEBOOK DE ILLIBRAIO.IT – Il 6 settembre, alle ore 18, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio presentano il loro romanzo Non è questo che sognavo da bambina con Teresa Ciabatti e Ilaria Gaspari
Ida è esclusa, mai invitata a pranzo, tenuta ai margini con sufficienza. Proprio lei, che si sentiva destinata a scrivere sceneggiature, cose di livello, si ritrova a pubblicare post per una pagina di food, ed è snobbata da colleghi che si entusiasmano per qualche slide di PowerPoint, e si dannano per clienti banali, additandola per errori che a lei sembrano insignificanti.
Il bagno dell’ufficio è il rifugio dove piangere o dormire, in attesa che arrivi sera, e che le bevute con l’amica Connie, sensuale e spregiudicata, o le chiacchiere con il coinquilino Simone, fraterno e paziente, le facciano dimenticare la giornata.
“Milano è uno specchio che restituisce quello che le dai”. E la Milano di Ida è fredda e grigia di giorno, ostile e stanca, mentre la sera si apre accogliente e vivace, nei locali dove l’alcol aiuta a sentirsi accettata, a superare la pochezza del lavoro, o l’assenza di quel Dario che l’ha lasciata e che Ida non riesce a dimenticare.
“Però fatemelo di’: non è questo che sognavo da bambina. Pensavo che avrei fatto qualcosa di meaningful e disruptive e invece sono finita a dire parole come meaningful e disruptive.
Mi resta un’unica gioia, lamentarmi”.
Ida piange, beve e si lamenta, con mail-fiume all’amica Gio, lontana, alla quale destina le sue confessioni, i rimpianti. Ma col passare delle settimane inizia a fare qualcosa di più: inizia a studiare le mosse dei colleghi, a sintonizzarsi con i loro modi di fare, e di dire, entra nel loro mondo, si adatta anche alla creatività delle piccole cose, quella che la gente capisce e compra, accoglie persino il potere degli aforismi o delle citazioni, scopre che una frase di Lucio Battisti funziona sempre, in ogni copy. Sarà solo partecipando, iniziando a guardare davvero la vita attorno a sé, riconoscendo le capacità dei colleghi e liberandosi del giudizio, che Ida capirà il valore inestimabile del fare la propria parte, non essere sola, e sentirsi finalmente felice di essere nel presente, a vivere insieme agli altri, sapendo che domani l’aspetta il suo posto, nel gruppo.
Perché anche a venticinque anni non avere una risposta all’ingrata domanda “E tu che fai nella vita?” fa male.
Crescere è trovare la propria armonia, il proprio posto in un sistema che non è perfetto, e mai lo sarà: quello è solo un oceano su cui fare surf, scrivono le giovani autrici, Canfailla e Di Virgilio, in un romanzo d’esordio brillante, che fa vivere con spontaneità e autenticità l’ambiente del lavoro e del fuori lavoro milanese, senza mai cadere nel cliché dell’imbruttito e del workaholic, ma planandoci sopra con leggerezza.
Diventare adulti non è coronare a tutti i costi i sogni dell’infanzia, è dare forma alla realtà del presente, costruendolo il più vicino possibile a noi stessi, alla scala dei nostri valori. Con grande rispetto per tutto quello che facciamo, perché quella è la base su cui far convergere il nostro io, mimetizzandolo quando serve, facendolo emergere quando piace. In questo impegno, che non finisce mai (per fortuna), si annida l’armonia della maturità. È un viaggio dell’eroe più prosaico, con tante sfumature di grigio, ma non privo di insidie e di avventure, e ci rende tutti più forti. Alcuni, i più aridi, diventano squali, i più fortunati e virtuosi possono essere pesci palla: velenosi coi nemici, morbidi con gli amici, capaci di gonfiarsi se serve, sopravvivere e andare avanti.
“La casa ora sono loro: i Navigli, le birre sulla Darsena, gli all you can eat in China Town. I bar in stile liberty di Porta Romana, i teatri sempre illuminati, via Tortona, le anteprime nazionali, gli aperitivi in Parco Sempione e la linea 61. I fenicotteri di Villa Necchi, il pavé, le esposizioni, il Vaffanculo di Cattelan in piazza Affari. I colleghi davanti alla macchinetta del caffè”.
Operazione riuscita e godibile di scrittura a quattro mani, Non è questo che sognavo da bambina è il ritratto ironico ma maledettamente serio dei venticinque anni di tutti. I giovani si riconosceranno in Ida, nel suo disordine creativo, nel suo faticoso essere “fuorisede”, con la continua frattura tra la nostalgia di casa e la paura di fallire e doverci ritornare, perché adesso “casa” è Milano: Ida è i giovani di oggi, è vero, ma non solo.
In lei riconosciamo la venticinquenne che siamo stati, anche noi che quell’età l’abbiamo raddoppiata, che non abbiamo avuto le chat, Netflix, o Tinder, ma non ci dimentichiamo lo strappo doloroso di quel momento di passaggio. E voltandoci indietro, guardiamo con comprensione all’ingenua arroganza dei primi tempi, e con sollievo a quell’istante in cui abbiamo capito che il mondo ci aveva accolto, con semplicità, e piano piano, con tanti aggiustamenti e qualche sbaglio lungo la strada, abbiamo preso possesso del nostro spazio.
Fonte: www.illibraio.it