Nata e cresciuta a Bolzano, da oltre trent’anni Sandra Bonzi vive a Milano. Giornalista, ha lavorato nell’ambito della televisione (Fininvest Comunicazioni, Telepiù, Disney Channel) e del cinema (Colorado, Albachiara Produzioni), e ha firmato numerose rubriche su periodici e quotidiani.
Per Garzanti arriva ora in libreria con il romanzo Nove giorni e mezzo, che fa conoscere un nuovo personaggio, Elena Donati.
Ci sono mattine da dimenticare. Proprio come accade a Elena quando viene svegliata all’alba dalla madre ottantenne che le annuncia di aver lasciato il marito per andare a vivere con due amiche coetanee e subito dopo, invece di essere promossa, viene licenziata dal giornale in cui lavora. Basterebbe molto meno a fiaccare l’entusiasmo di chiunque, sennonché arriva una notizia che per molti sarebbe drammatica, ma non per lei: in una via del centro di Milano vengono ritrovati due trolley grondanti sangue. Subito, l’intuito di Elena drizza le antenne. Potrebbe significare che non tutto è perduto. Che può ancora fare uno scoop, riconquistare il suo lavoro e non occuparsi solo di rispondere alle richieste più disparate dei suoi figli quasi fuori casa. Che può ancora provare una scarica di adrenalina, non solo sdraiarsi accanto al marito dopo un giorno uguale a quelli precedenti. Quello che Elena non può immaginare è che le sue ricerche la porteranno a indagare insieme a sua madre e alle sue amiche, convinte che il corpo nelle valigie sia quello del loro maestro di tango. E soprattutto che le azioni al limite della legalità cui sarà costretta potranno risvegliare dal letargo il suo matrimonio. Perché forse dare ascolto all’anima da detective che è dentro di lei non è sbagliato. Forse le brutte notizie non sono poi così brutte, sono solo deviazioni verso l’ignoto che non sempre deve fare paura.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
- 13-15
– Posso lavarle assieme?!? A che temperatura?
La domanda può apparire innocua. Non se inviata con WhatsApp nel cuore della notte. Men che meno se, prima la vibrazione, poi un deciso squillo di tromba irrompe nel silenzio tombale della camera da letto di Elena ed Ettore, una coppia di genitori con figli poco più che adolescenti che, da qualche mese, non vivono più sotto quel tetto.
Ecco, in quel caso, gli effetti possono essere dirompenti.
«Oddio, cos’è?»
Elena – panico, fiato corto e cuore a mille – balza come una molla sul letto, cerca come un’ossessa l’interruttore dell’abat-jour sul comodino e afferra il cellulare.
Ettore grugnisce.
«Possibile che tu non possa trovare una suoneria più umana?»
Per lui il sonno è sacro. Otto ore, qualsiasi cosa succeda. Da sempre. Un’interruzione alle tre di notte mal si concilia con quella che ritiene essere una routine irrinunciabile. Di sicuro non a un passo dalle sessanta candeline che nel giro di dodici mesi gli toccherà spegnere. Perché Elena su quello non transige. Le candeline ci devono essere. Altrimenti non è un vero compleanno.
«Oddio, è Anna…»
Avere una figlia di ventun anni che da un mese è a Londra a fare l’Erasmus, può essere un modo per rientrare nelle statistiche dei cervellini in (potenziale) fuga oppure l’ennesima conferma di quanto si sia rimpicciolito il mondo e ampliati gli orizzonti dei millennials. Non per Elena. Per lei è innanzitutto fonte di ansia. Un neurone del suo cervello non stacca mai. E, con lui, nemmeno il cellulare. Che, dalla partenza di Anna, è diventato una sorta di appendice dalla quale lei non si separa. Mai. Nemmeno la notte. A onor del vero, quel filo di inquietudine, sempre presente nelle sue giornate (e notti), non è imputabile in toto all’assenza di Anna, ma anche alla partenza del secondo figlio, Marco. Il diciannovenne, infatti, terminato il liceo, con certosina ostinazione aveva individuato l’unica facoltà non presente a Milano. Il DAMS. E aveva fatto le valigie per Bologna.
La chiamano sindrome del nido vuoto.
Quando i ragazzi erano partiti, dopo un primo momento di sollievo, Elena aveva accusato un dolore fisico, simile a quello che sperimenta chi ha subito l’amputazione di un arto. Aveva passato giorni a macerarsi nella tristezza. L’ave-va aiutata la voce roca di Vasco, uno che di malinconia e tempo che passa se ne intende. Elena aveva sentito con netta precisione che quello era, senza possibilità d’appello, un definitivo cambio pagina, il salto nella terza parte della sua vita. Tutta da pensare e da reinventare. Sia a livello individuale sia di coppia. Perché quello era l’altro tema: lei ed Ettore tornavano a essere coppia.
Aiuto.
Oltre trent’anni di vita comune, di cui ventuno da genitori. E adesso, di nuovo coppia. Ma diversa da quella delle origini. Non solo per una questione di età. Anche quella conta, certo. Ma quel che Elena sente è il peso di un enne-simo necessario cambio di marcia, di pelle, di coordinate. Il processo per diventare madre era stato lungo e fatico-so. Gli aggiustamenti non erano sempre stati morbidi. Gli strappi, soprattutto nei primi anni di Anna e Marco, erano stati numerosi. E avevano lasciato il segno. Calarsi in quel ruolo, indossare quei panni, aveva mosso rabbie, frustrazioni e tonnellate di sensi di colpa. Causato rinunce. Aveva richiesto di accettare una responsabilità verso altri esseri umani, preteso un pensiero allargato che includesse i figli, le loro esigenze, i loro tempi. Aveva modificato il DNA del suo frigorifero, dilatato il tempo passato in cucina, reso il suo sonno un delicato soffio, trasformato il suo cervello in un efficientissimo organizer attivo h24.
E aveva pure modificato la sua relazione con Ettore.
Il processo era stato lento, ma ineluttabile. Sopraffatto dalla routine, dal quotidiano, dagli infiniti bisogni di cui – esplicitamente o meno – i figli chiedono soddisfazione da subito, fin da quando sono più simili a piccoli roastbeef che a esseri umani, il loro rapporto era senza dubbio cambiato, in modo sottile, ma profondo. Elena deve ammettere di non averci fatto troppo caso. Le era mancato il tempo per registrare, passo dopo passo, le piccole variazioni che alla lunga avevano portato a una metamorfosi. O, meglio, le era mancata l’energia. Perché quella che non le avevano succhiato i due ragazzi, era stata assorbita dal suo lavoro. E dal-la fatica di tenere tutto assieme.
Chissà Ettore.
Perché in tutti quegli anni anche lui avrà fatto dei pensieri. Anche lui avrà percepito quel mutamento. Ma da quanto tempo non parlavano tra loro di sé stessi? Parlare, veramente. Ascoltandosi. Quando si erano interrotte le lunghe chiacchiere in cui Elena aveva sentito di essere in contatto profondo? Le nottate in cui il tempo smetteva di esistere, le parole assumevano quasi sostanza fisica e lei sentiva che quello, come anni dopo avrebbe cantato Jovanotti, era il loro «ombelico del mondo»?
Elena non lo sa.
(continua in libreria…)
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Fonte: www.illibraio.it