Perché si parla così poco della dispersione scolastica?

di Enrico Galiano | 26.03.2024

Senza nulla togliere alla crisi globale, ai conflitti che ci fanno un po’ tutti sentire come alla vigilia di Sarajevo 1914, ma c’è una notizia che mi meraviglio non sia fra le prime di tutti i giornali e telegiornali.

Quale? Questa: che i nostri ragazzi non vanno più a scuola.

Le cifre fanno paura: siamo al terzo posto in Europa, senza contare il preoccupante numero di NEET, ragazzi fra i 18 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (23,1%).

Ma perché succede?

Dai, sediamoci tutti attorno a un tavolo e parliamone, proviamo ad abbozzare delle risposte.

Io provo con queste cinque, che mi sembrano le più urgenti.

#1 I giovani non ci credono più

So quanto sia sbagliato generalizzare, ma in questo caso sono davvero troppi i ragazzi che non finiscono neanche le superiori e mollano prima.

Non ci credono più vuol dire che non credono più che la scuola serva davvero a qualcosa, nella loro vita. Perché sono convinti che gli strumenti fondamentali per costruirsi un futuro li troveranno altrove, perché le sirene di un lavoro con stipendio oggi li attraggono a sé, lontano dall’Itaca di realizzare sogni visti come troppo difficili, troppo complicati.

Optano direttamente per il piano B, insomma, perché li spaventa l’incertezza di un piano A così a lungo termine e soprattutto perché non ci credono che la scuola li possa avvicinare a realizzarlo.

Molto spesso, anzi, partono proprio con l’idea che sia fatica sprecata anche solo a immaginarlo, un piano A. E se è questa la povertà di orizzonti che hanno, chiediamoci tutti quanti: cosa ha fatto la scuola per far loro cambiare idea?

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#2 È la scuola stessa a respingerli

Fateci caso: chi abbandona la scuola prima del tempo, quasi mai è perché non è capace o non è abbastanza intelligente. Spesso anzi, è vero il contrario: sono i pensieri divergenti, sono i ragazzi con intelligenze corporeo-cinestetica, o musicale, spaziale visiva, in una scuola che ancora oggi nel 2024 sembra captare col suo radar solo le intelligenze logico-matematica o verbale-linguistica.

È la scuola stessa ad allontanare i ragazzi più dotati, perché ancora oggi sembra premiare sempre e solo i bravi esecutori di compiti e non le menti in grado di intravedere soluzioni nuove: i “bravi” insomma sono quelli che danno le risposte corrette, non quelli che sanno fare le domande giuste.

Anzi, spesso chi fa troppe domande, o chi tende a distrarsi, è visto come un disturbatore, un elemento da tenere d’occhio ma non in senso buono.

E quando dico che li respinge, non è una metafora: l’Italia è fra i paesi europei con più bocciati (7,8% contro la media europea di 6,2). Tanti bocciati e tanti che mollano prima. Coincidenze? Io non credo.

#3 Troppa competitività

Ancora non ce la facciamo a uscire dalla mentalità della competizione. Chiedetelo ai vostri ragazzi, quanto la sentono e quanto è in realtà un freno alla loro curiosità e alla libertà di spaziare fra i saperi. Si studia solo se “questa cosa la mette nel compito”, il resto lasciamo stare. E poi, dopo la verifica, spesso tutto viene dimenticato.

E, da quando a scuola una parola fondamentale è diventata “il merito”, non stiamo meglio.

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#4 Non li ascoltiamo

Qui la causa, secondo me, è nel numero di studenti per classe: come fai a dedicare ascolto e attenzione a 28 ragazzi, tutti con esigenze particolari e diverse?

Ecco allora che la scuola non viene quasi mai percepita come un posto dove si viene ascoltati, ma solo dove si viene ad ascoltare quello che gli altri hanno da dire. Ascoltare e prendere appunti, buttare dentro informazioni e poi rigurgitarle fuori.

Il problema è che l’ascolto è sempre un fatto reciproco: loro ascolteranno solo nella misura in cui si sentono ascoltati.

È anche comprensibile che dopo un po’ una parte importante di loro pensi: ma allora che cosa ci vado a fare?

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#5 Le scuole italiane sono brutte

Io le giro da quasi dieci anni, dal Piemonte alla Sicilia. Ora, tolto che alcune cadono letteralmente a pezzi, non hanno riscaldamento o impianti di condizionamento, il problema è che in generale sono proprio brutte.

Vecchie, rovinate, con aule dall’acustica pessima, muri vetusti, luci al neon. Sottovalutiamo troppo questo aspetto e ci dimentichiamo che, come diceva un certo Peppino Impastato, bisogna sempre partire dalla bellezza: è lei che ti insegna a non abbassare la testa, a non rassegnarti.

Serve a poco dotarle di LIM e tablet, se prima non li rendiamo ambienti confortevoli per insegnanti e studenti.

(aggiungo il mio esempio personale: la mia è da quattro anni in un prefabbricato di quelli per terremotati, e l’ironia vuole che sia comunque una situazione più vivibile della sede ufficiale in ristrutturazione)

In conclusione, aggiungo un disclaimer: è un post polemico, ma perché la situazione è grave.

Già mi immagino molte obiezioni, molti “non è vero!”, alle quali voglio rispondere con questa domanda: se non ci fosse almeno un po’ di verità in questa analisi, come mai allora così tanti ragazzi abbandonano la scuola prima del tempo?

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti)  Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoiFelici contro il mondo, e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Con Salani Galiano ha quindi pubblicato la sua prima storia per ragazziLa società segreta dei salvaparole, un inno d’amore alle parole e alla lingua. Ed è poi uscito per Garzanti il suo secondo saggio Scuola di felicità per eterni ripetenti. Il suo ultimo romanzo è Geografia di un dolore perfetto (Garzanti).

Qui è possibile leggere tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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Fonte: www.illibraio.it