Da un paio d’anni quello delle cosiddette “grandi dimissioni” è tra i temi più dibattuti, dagli Usa all’Europa: le persone sono stanche, stanchissime, si licenziano o valutano di farlo, puntano a stili di vita meno sfiancanti, meno tossici. Come raccontano settimanalmente media e social, e come emerge dalle conversazioni tra amici, in tante e in tanti sembrano non farcela più.
Alcuni analisti sostengono che siano specialmente i lavoratori più giovani a darsi alla fuga, mentre da altre indagini (in particolare quelle che fanno riferimento all’Italia) emerge che a cambiare lavoro sono per la maggioranza maschi, over 45, in particolare in settori come l’edilizia (dove, in tempi di bonus, le opportunità professionali certo non mancano) e la sanità (del resto, medici e infermieri vengono da anni vissuti al limite, senza pause, a fronteggiare la drammatica quotidianità che ancora si vive negli ospedali).
Fatto sta che la tendenza in atto, pur con caratteristiche e sfaccettature diverse a seconda dell’area geografica, è diventata ormai un fenomeno da cui non si può prescindere, di cui si parla con sempre più attenzione e preoccupazione. Colpa solo della pandemia? Può darsi. Ma probabilmente anche colpa del sistema in sé, che in questo momento così critico si sta rivelando in tutta la sua fragilità.
Fioccano articoli, ricerche e saggi sull’argomento, e anche i romanzieri e le romanziere hanno preso a raccontare storie ambientate nel mondo del lavoro. A pensarci bene, già questa è di per sé una bella scommessa: descrivere dinamiche lavorative – mansioni, routine, gesti reiterati di continuo… – potrebbe non essere una scelta molto simpatica: è un materiale pieno di trappole che rischiano di far scadere la narrazione nella noia o nel tecnicismo, o semplicemente nella nausea, della serie “dopo una giornata di lavoro, non ho voglia di sentir parlare ancora di lavoro”.
Tuttavia negli ultimi anni si è venuta a creare una corrente di libri sul tema che sembrerebbe dimostrare esattamente il contrario: l’ufficio è diventato l’arena perfetta per esplorare temi come le relazioni, gli squilibri di potere, ma anche l’individualismo, il perfezionismo, l’emancipazione femminile, la stanchezza e l’esaurimento, il rapporto con la tecnologia. Tutti aspetti che ci riguardano con urgenza e che, attraverso il racconto della vita di tutti i giorni, emergono con maggior forza e chiarezza.
Non a caso nell’ultimo libro di Tahmima Anan, All’ombra di nessuno (Garzanti, traduzione di Valeria Bastia) viene raccontata la vicenda di una dottoranda, Asha Ray, che entra nel mondo delle start-up (o, meglio, delle aziende che “incubano” le start up) per dare vita al suo innovativo progetto tecnologico. Il romanzo è infarcito di situazioni che chiunque lavori nel digitale riconosce subito come famigliari – dai meeting online alle lunghe conversazioni sugli algoritmi, passando per la descrizione di app create per fare praticamente qualsiasi cosa – ma al di là della trama e del contesto in cui è calata, quello che l’autrice vuole mettere in luce è la storia di una ragazza che inventa qualcosa, e di un ragazzo che si prende il merito.
Quella narrata da Anam, nata nel 1975 a Dacca, in Bangladesh, e ora residente a Londra, è una storia che di certo non ha nulla di nuovo – in fondo quante volte abbiamo visto lo sforzo delle donne tramontare di fronte a quello degli uomini? – ma che sa arrivare con una nuova energia perché si alimenta di tanti elementi che si connettono con il tempo che viviamo.
Ci ritroviamo nel personaggio di Asha, nel suo sentirsi invisibile durante le riunioni, nel suo voler urlare “è merito mio” e non riuscirci, nel suo essere combattuta tra l’essere una brava mogliettina e, contemporaneamente, una brillante lavoratrice.
In lei sono racchiuse molte delle contraddizioni che tante donne si trovano a vivere: dall’insopportabile sensazione di non essere abbastanza, al profondo bisogno di uscire fuori dal guscio; dalla voglia di amare, condividere e sentirsi giusta nel ruolo di compagna, al desiderio di splendere da sola, e scegliere autonomamente il proprio destino.
In lei il terribile detto “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” può essere interpretato letteralmente, visto che è suo il progetto di fondare WAI – We Are Infinite, una piattaforma di social media che personalizza cerimonie e rituali per persone che non sono religiose, ma il nome e la faccia ce li mette il marito Cyrus (il titolo originale del libro, The Startup Wife, rende intuibile il fulcro del romanzo e quello che accadrà ai personaggi).
La sua è una parabola di riscatto e autodeterminazione, ma quello che rimane con prepotenza è un quadro abbastanza negativo (anzi, diciamo pure apocalittico, stando agli eventi del romanzo) di una cultura del lavoro sempre più spietata e assurda, che sembra solo voler spolpare l’individuo; spremerlo come un limone e poi abbandonarlo a se stesso (specialmente, poi, se è donna).
Nessuna meritocrazia, nessuna affermazione, nessuna scintillante storia di self-made-woman. Ecco, sembra proprio che non ci sia più spazio per i racconti di realizzazione personale alla Steve Jobs: non c’è più niente da essere hungry e foolish. Piuttosto che divorare tutto e andare fuori di testa, bisognerebbe cercare di trovare un equilibrio, di stabilire una sorta di giustizia che metta uomini e donne sullo stesso piano.
Del resto, come detto, la storia di Asha non è un unicum, ma si affianca a quella di molte altre protagoniste che arrancano, corrono, armeggiano con i computer, tentano di inserirsi in contesti lavorativi in cui “sgomitare” è la parola d’ordine (da Queenie, la protagonista del romanzo d’esordio di Candice-Carty Williams, a Anna Wiener con il suo memoir La valle oscura). Sullo sfondo, di solito, situazioni sentimentali precarie, traballanti o non soddisfacenti. Il senso è: chi ha tempo per l’amore quando ogni energia deve essere investita per lavorare, per spiccare, per farsi notare?
Cosa rimane allora alla fine? Una profonda stanchezza, la voglia di scappare via e, nonostante tutto, provare a cambiare tutto.
L’AUTRICE – Jolanda Di Virgilio lavora nella redazione de ilLibraio.it. È co-autrice, con Sara Canfailla, del romanzo d’esordio Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti, in libreria il 26 agosto). Al centro del libro, ambientato in un’agenzia di comunicazione milanese (e in cui la città, i suoi locali, i suoi quartieri sono co-protagonisti della stori), si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile, dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente molto soli.
Fonte: www.illibraio.it