Alice Basso: “Imparare a scrivere significa anche imparare a far ridere”

di Alice Basso | 26.05.2021

Quando ero alle medie, mi pare in prima o in seconda, un giorno ci dissero che avremmo avuto un’ora buca. Questa è una cosa che, a undici anni, ti mette un sacco di buonumore. Poi la bidella rientrò e rettificò: niente ora buca, s’era trovato il prof d’italiano di un’altra classe per farci una supplenza.

Queste son cose che il buonumore te lo trucidano, ma puoi sempre sperare che il prof sia seccato quanto te per via della supplenza e che ti lascerà fare i tuoi compiti – leggasi: copiarli da qualcuno – mentre lui si porta avanti con i suoi – leggasi: apre la Gazzetta dello Sport e si aggiorna sullo stato del suo fantacalcio.

Entrò un tizio che, se non ricordo male, aveva effettivamente il giornale sotto il braccio. Il buonumore si riaccese timidamente. Aveva però anche una strana luce negli occhi. I prof a volte ce l’hanno, specie se sono supplenti in una classe che poi non rivedranno più, sulla quale possono praticare esperimenti sociali senza timore di subirne le conseguenze.

Era la luce del sadismo.

Oggi che ho l’età che all’epoca mi pareva avesse quel prof, ossia centocinquant’anni (era pure stempiato, segno inequivocabile dell’approssimarsi della morte), io devo dire che un po’ lo capisco. Hai davanti tutti i giorni nugoli di venti pidocchietti a botta che, per mascherare la loro insicurezza di fronte alla vita, non fanno che brontolare, strillettare, fingere di sapere tutto e fare gli uomini scafati ai quali tu, centocinquantenne polveroso rimasto nel passato, non puoi insegnare niente. Vuoi perderti l’occasione di impartire loro una piccola, pure sana lezioncina di vita?

Così, “Adesso mi scrivete un racconto”, disse.

“Guardi che facciamo temi in continuazione, li sappiamo già scrivere, i racconti.” Gnegné. Saccenti. Col tono da “seh, è arrivato questo”. (Tra parentesi, al di là del tono con cui l’avevamo detto, era pure vero. La nostra prof di italiano ci faceva leggere e anche scrivere molto, e oggi la ringrazio tantissimo per questo.)

“Sì, ma stavolta fate una cosa che secondo me non avete mai dovuto fare. Mi scrivete un raccontino che faccia ridere“. Ah. Era vero anche questo, che non l’avevamo mai dovuto fare.

Rispettando le nostre personali inclinazioni caratteriali, la nostra prof ci aveva chiesto, sì, di scrivere un sacco di temi sugli argomenti più disparati, da quelli studiati con lei a spunti d’attualità, ma non ci aveva mai imposto di adeguarci a un certo stile, di mirare a un certo risultato, come dire?, emozionale.

Il tizio aveva aperto il giornale e secondo me se avesse potuto avrebbe pure piazzato i talloni sulla cattedra, tutto soddisfatto di sé. “Dai, vi do mezz’ora così la seconda mezz’ora li leggo e vi dico”.

E quello fu l’incontro di noi pischelli spocchiosini e sotuttoio, convinti di essere i più brillanti, simpatici, accattivanti trascinatori di folle sulla faccia della terra, i cocchidimamma, i “l’altro giorno mio figlio ne ha detta una che, oh oh oh!, io e suo padre abbiamo riso mezz’ora!”, gli “amore, recita la filastrocca alla nonna, dai, che sei proprio un attore!”, con l’umorismo letterario.

Primo problema: di cosa parlare?

Oggi so che si può far ridere parlando praticamente di tutto. (Be’, non tutto tuttissimo: esistono degli argomenti tabù sui quali, oserei dire grazie al cielo, se osi fare dell’ironia vieni pugnalato dagli sguardi degli astanti o, se scrivi di professione, dalla penna della tua editor. C’è chi grida allo scandalo, ma secondo me si chiama buongusto e intelligenza emotiva e va benissimo: semplicemente, fai uno sforzino e ti cerchi qualcos’altro su cui fare altre battute.) Comunque, oggi so che puoi far ridere parlando della tua famiglia come del tuo posto di lavoro come dell’ultimo fatto di politica interna o internazionale come delle missioni spaziali su Marte.

In quel momento: il vuoto.

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Il mondo era un posto grigio e mogio e privo di ispirazioni che non fossero al suicidio. Alla fine scelsi di parlare della gita scolastica del mese prima. Insomma, cosa c’è di più divertente, nell’immaginario di un undicenne, della gita scolastica?! Non potevo fallire.

Secondo problema: come prima o poi scopri nella vita, le cose per cui ridi con i tuoi amici non fanno ridere nessun altro.

Più scandagliavo la mia memoria alla ricerca di aneddoti reali, eventi accaduti per davvero durante la gita, che potessi limitarmi a trascrivere affinché facessero da soli il lavoro sporco di far ridere il prof (sono sempre un po’ stata una da massimo risultato col minimo sforzo), più essi cadevano sotto i miei occhi come soldati sul Piave. Non facevano ridere: li immaginavo raccontati al prof, ossia a un tizio sconosciuto che non poteva imbottirli autonomamente di tutte quelle nozioni di contesto che possedevamo noi che li avevamo vissuti, e addio. Non. Facevano. Ridere.

Bisognava che m’inventassi qualcosa ex novo. Qualche battuta, situazione, gag. E qui, terzo problema. Le gag o le situazioni che ti fanno ridere a undici anni sono per lo più fisiche. Come le comiche di Stanlio e Ollio, di Mr Bean, di Benny Hill.

Ridi perché la tua amica in gita è caduta dal letto a castello (storia vera), ridi magari anche perché mentre cadeva, ti ha riferito in un secondo momento, ha pensato “oh, ma qui non si arriva più!”, ma non è la battuta in sé a farti ridere, quanto l’immaginarti la tua amica, proprio quella persona lì, che fa una cosa come cadere dal letto, quel letto lì che quella notte lì era di fianco al tuo, e in più mentre cade trova il tempo di partorire un pensiero stranamente lento e serafico come quello (tra parentesi: ancora oggi a me fa ridere pensare a una che cadendo dal letto trovi il tempo di pensare “oh, ma qui non si arriva più”, ma nulla che giustifichi le sganasciate che all’epoca l’episodio ci causò). Ridi perché l’oca da cortile dei tuoi zii ha un carattere di merda e un giorno è corsa dietro a tuo cugino, così, solo perché le giravano. Ridi perché il tuo amico ha provato a bere la Coca-Cola dal naso.

Tutte cose che, se le trasferisci su un foglio, perdono ogni spontaneità, ogni vividezza, ogni effetto sorpresa.

(A meno che tu non sia, boh, Roald Dahl. Ma a undici anni leggi Roald Dahl, quasi sicuramente non scrivi come Roald Dahl.)

E allora ti chiedi – anzi, io, undicenne saccente che non sopportava l’idea di fallire in un compito scritto (per la miseria! Ero brava, a scrivere, io! Mi piaceva! Lo sapevo fare!…vero?), mi sono chiesta: cos’è che fa ridere chi legge?

Vi spoilero subito il finale: il racconto mi uscì orrendo. Il professore circondò una – una – sola frase efficace in tutta la pagina (fu carino: fece un bel cerchio grande, così sembrava che contenesse più roba). Io ero permalosa e detestavo non essere all’altezza di un compito scolastico (“saccente” l’ho già detto, sì?), per cui la presi come una sfida.

Mi rilessi i libri che mi avevano fatta ridere e – novità – stavolta mi chiesi perchéCos’è che faceva ridere me, come lettrice?

Bianca Pitzorno: adoravo Pitzorno, era brillante e un sacco di scene dei suoi libri facevano smascellare. In Extraterrestre alla pari, quando il dottore deve scoprire di che sesso sia l’umanoide preadolescente, fra i vari test che pratica gli/le tira addosso a sorpresa un oggetto; l’idea è che la memoria atavica della specie induca un uomo a chiudere le gambe per prendere l’oggetto sulle ginocchia, una donna le allarghi per riceverlo nella gonna. L’umanoide si scansa. Perché, dai, che modi sono?, tirare le cose addosso alla gente, così?

Recuperai un giallo della serie Mondadori Junior: Un grido nella notte, di Jay Kelso. Quello perché mi aveva fatta ridere tantissimo? Ma certo: per le battute fulminanti, le metafore, le descrizioni non letterali. “Il locale puzzava come l’interno di una scarpa da ginnastica.” “La mia amica ha le gambe più lunghe che abbia mai visto, le arrivano fino alle ascelle.” “Aveva l’aspetto di una che si era appena succhiata una cassa di limoni.” C’eravamo. C’eravamo!

I miei genitori, super liberali, mi lasciarono leggere librini di comici che ironizzavano su cose di politica e attualità che non sempre potevo capire con un linguaggio che non sempre potevo adottare (anzi: mai. Perlomeno a undici anni). C’era un racconto – mi pare di Gino e Michele, che negli anni Novanta andavano fortissimo – che mi faceva sbellicare: si intitolava Il Puttanone e parlava di una tizia ricca che ogni santo giorno, per aspettare l’uscita di sua figlia dalla sua scuola per ricchi, col suo ricchissimo suv bloccava il traffico in viale Majno a Milano. “Noi del giro la chiamiamo familiarmente Il Puttanone”.

Potreste pensare che mi facesse ridere per l’uso del turpiloquio (be’, a undici anni, un po’), ma soprattutto era per l’idea che tutti i santi giorni che Dio metteva in terra ci fossero sempre le stesse persone, sempre bloccate, sempre nello stesso punto, da una deficiente sorda a ogni rimostranza, e che nel tempo si fossero adattate alla disgrazia endemica socializzando, stringendo legami, condividendo la sofferenza.

Poi era venuto Stephen King, che a una undici-dodicenne fa fare tante cose, per esempio fa venire la pelle d’oca o le lacrime agli occhi, ma qualche volta, per esempio nelle introduzioni autobiografiche ai suoi volumi degli anni Novanta (ancora oggi le mie-sue parti preferite), fa anche esplodere la risata (“mia madre mi mise la giacca e la cravatta e poi mi chiese com’è che non sembravo contento di andare alla festa di compleanno della mia compagna di classe vestito così. E certo, d’altra parte ero io il candidato a Povero Stronzo Dell’Anno”. E, ancora: non era la parolaccia; era la situazione: la rassegnazione del protagonista mandato in giacca e cravatta alla festa, a morire dentro).

Poi c’era, tantissimo, Calvin & Hobbes, il fumetto-capolavoro di Bill Watterson (“Mamma, ho deciso di donare il mio moccio nasale alla scienza!”. “Calvin, ma che schifo! Nessuno è interessato al tuo moccio nasale!” “Ah. Ho un barattolo da farti lavare.”) (Sì, be’, l’ho detto che avevo undici anni? La componente fisica e scatologica ancora conservava un certo fascino. C’è gente che se la porta dietro fino ai trent’anni, eh).

Di lì a pochissimo era arrivato Stefano Benni come un cowboy che entra nel saloon con una pedata alla port. E poi a ormai quindici o sedici anni (e, oserei dire, meno male che non è successo prima, perché forse non sarei stata in grado di cogliere tutto tutto), una mia amica che non a caso è tuttora mia amica mi passò The Princess Bride, di William Goldman, allora ancora intitolato La storia fantastica (oggi è stato ripubblicato come La principessa sposa), che è ancora oggi il mio libro del cuore (infatti ne parlo sempre: dopotutto non ho più undici anni ma centocinquanta, noi vecchi siamo ripetitivi) perché mi ha mostrato ai massimi livelli come si fa metaletteratura, avventura, introspezione senza pesantezza, e soprattutto tanto, tantissimo umorismo (non c’è paragrafo, in quel libro, che non contenga la scintilla del genio).

Non so se ho imparato niente, ma di certo è stato un percorso molto, molto piacevole.

E ora vado a rileggermi la parte in cui Max Miracolo fa resuscitare Westley che è solo quasi-morto e non morto-morto, ché mi è tornata voglia di farmi una risata.

il grido della rosa

L’AUTRICE E IL LIBRO – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani Sarca: L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Scrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittore, La scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta.

Ora torna con Il grido della rosa, la seconda avventura della protagonista di questa nuova serie di romanzi. Veniamo alla trama del nuovo libro: manca poco all’uscita del nuovo numero della rivista di gialli Saturnalia. Anita è intenta a dattilografare con grande attenzione, il suo lavoro le piace ogni giorno di più. Non solo perché Sebastiano Satta Ascona, che le detta la traduzione dei racconti americani pieni di sparatorie e frasi ad effetto, è accanto a lei. Ma soprattutto perché questa volta le protagoniste sono donne detective, brave quanto i colleghi maschi. Ad Anita sembra un sogno. A lei che le restrizioni del regime fascista stanno strette. A lei che ha ritardato il suo matrimonio per lavorare. A lei che legge libri proibiti che parlano di indipendenza e libertà. A lei che sa che quello che accade tra le pagine non può accadere nella realtà.

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CREDIT FOTO: Yuma Martellanz

Nella realtà, se una donna aspetta un bambino fuori dal matrimonio, rischia che suo figlio venga adottato. E, se viene trovata morta davanti al cancello della villa dei genitori affidatari, si è trattato di un incidente. Quasi come se fosse andata a cercare una brutta fine. Questo accade a una ragazza di nome Gioia. Una ragazza che Anita non conosce. Ma non le importa. I suoi investigatori non attendono che ci sia qualcosa di personale per agire. Basta un indizio a far partire la loro intuizione. E così è per lei. Deve capire cosa sia successo veramente…

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Fonte: www.illibraio.it