Cristiani, riappropriamoci della figura di Maria

di Redazione Il Libraio | 02.12.2016

Torna in libreria per Garzanti in una nuova edizione Nostra signora degli eretici, saggio del biblista Alberto Maggi (collaboratore de ilLibraio.it), che si confronta con la figura della madre di Gesù. Di Maria, secondo il saggio, si sono impadroniti, nel corso dei secoli, i movimenti più retrivi e reazionari, facendone la portabandiera di rivendicazioni oscurantiste e antievangeliche.

Sempre secondo Maggi, la sua limpida figura è stata poi inquinata da una pioggia di pseudo-apparizioni che ci presentano, secondo un cliché ormai stantio e ripetitivo, una madonna-giramondo sempre loquacissima, che affida misteri e segreti a persone d’ogni genere, e che non manca di versare lacrime, magari di sangue, da statue di ogni continente.

Con questo libro frate Maggi si rivolge a quanti vogliono riappropriarsi con decisione della figura di Maria in quella che è la sua reale essenza: non più ridotta a un’icona solo da venerare, ma una persona con cui camminare insieme. Solo in questo modo è possibile cancellare quell’aura che per secoli ha reso Maria distante, inavvicinabile, inimitabile, per riuscire così a vedere Maria con gli occhi di un abitante di Nazaret, e Gesù con gli occhi di Maria e della sua famiglia.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo l’introduzione alla nuova edizione:

Ogni predica che ho udito sulla Madonna, mi lasciava fredda. Quanto sarei stata volentieri un sacerdote, per predicare sulla Santa Vergine!… Avrei anzitutto mostrato quanto poco sappiamo propriamente sulla sua vita. Non si dovrebbe consentire che si raccontino cose inverosimili su di lei. Una predica sulla Santa Vergine, per portare frutto, dovrebbe mostrare la sua vera vita – come lo lascia intravedere il Vangelo – non una immaginata…

E pur si intuisce bene che la sua vita – a Nazaret e successivamente – dev’essere stata del tutto comune. La Santa Vergine ci viene mostrata irraggiungibile, la si dovrebbe mostrare imitabile, mentre esercita delle virtù nascoste; si dovrebbe dire che essa come noi ha vissuto di fede, lo si dovrebbe documentare con passi tratti dal Vangelo, dove leggiamo: «Ma essi (Maria e Giuseppe) non compresero quel che loro diceva»…

Va bene ed è bello parlare delle sue prerogative e privilegi, ma non ci si deve limitare a questi. Si deve parlare in modo che le persone la possano amare.

Quando, ascoltando una predica sulla Madre di Dio, si è costretti, dall’inizio alla fine, a prendere respiro – tanti sono gli ah! e gli oh! di stupore – ci si stanca ben presto; e questo non porta né all’amore né all’imitazione. Chi sa se – in ultima analisi – più di un’anima venga sospinta da una creatura così superiore, addirittura verso una sorta di estraniazione?


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Queste parole risalgono a due secoli fa e sono di Teresa di Lisieux, meglio conosciuta come santa Teresa del bambino Gesù (Derniers entretiens avec ses soeurs, Novissima Verba, Desclée de Brouwer e Cerf, Paris 1971, pp. 389-391). Ho citato questo testo perché se pur è confortante costatare che nella Chiesa esistono persone che in sintonia con lo Spirito che «soffia dove vuole» (Gv 3,8) rifiutano le esagerazioni sulla madre di Gesù che sentono non consone alla propria esperienza di Dio, siamo coscienti che è sempre rischioso parlare o scrivere di Maria, la vergine di Nazaret, moglie di Giuseppe e madre di Gesù, l’Uomo-Dio. Il rischio è quello di esagerarne la figura, divinizzandola per affetto e ammirazione o, al contrario, di sminuirne il ruolo, fino ad annullarlo. Pericolo, questo, già avvertito dal Concilio, che «esorta caldamente i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione, come pure dalla grettezza di mente nel considerare la singolare dignità della Madre di Dio» (LG 67). Pericolo richiamato anche in quella profonda riflessione su Maria che è il documento Marialis cultus, di Paolo vi: esso mette in guardia dalla «vana credulità, che al serio impegno sostituisce il facile affidamento a pratiche solo esteriori; lo sterile e fugace moto del sentimento, così alieno dallo stile del Vangelo, che esige opera perseverante e concreta», e da quelle forme che «soggette all’usura del tempo, appaiono bisognose di un rinnovamento che permetta di sostituire in esse gli elementi caduchi, di dar valore a quelli perenni…».

L’insegnamento del magistero su questo punto è chiaro e netto. Rinnovando la deplorazione di tali deviazioni, afferma che esse «non sono forme in armonia con la fede cattolica e, pertanto, non devono esistere nel culto cattolico» (MC 24.38).

Nel ricercare lo «stile del Vangelo» per una seria inchiesta su «Maria e Nazaret», sono quindi risalito alle fonti: la Scrittura, con particolare attenzione ai Vangeli (compresi quelli Apocrifi), i Padri della Chiesa, il Talmud, gli scritti rabbinici e tutta la letteratura extra-testamentaria dei primi due secoli cristiani; il tutto illuminato dalle indicazioni del magistero espresse dal Concilio Vaticano II nella costituzione Lumen gentium e nei successivi documenti Marialis cultus e Redemptoris mater.

Ho tenuto saldamente presente tutto ciò, perché questo mio lavoro intende rivolgersi essenzialmente a quei cristiani che vogliono riappropriarsi con decisione della figura di Maria in quella che è la sua reale essenza.

Della madre di Gesù infatti si sono impadroniti i movimenti più retrivi e reazionari facendone la portabandiera di rivendicazioni oscurantiste, antievangeliche e antiecclesiali. Costoro sono riusciti a camuffare la stupenda e forte figura emergente dal Vangelo, che mai «fu la donna passivamente remissiva di una religiosità alienante» (MC 37), nella melensa «dolce mammina celeste» dei visionari; una madonna che, ora blandendo ora minacciando, sempre richiama ai rigori di tradizioni, riti e pratiche ormai mummificate. E così hanno legato Maria «agli schemi rappresentativi delle varie epoche culturali non adatte ad uomini che appartengono ad epoche e civiltà diverse» (MC 36).

Sono tra questi coloro che «al di fuori di un sano criterio liturgico e pastorale, uniscono insieme pii esercizi e atti liturgici in celebrazioni ibride… e nella stessa celebrazione del Sacrificio eucaristico inseriscono elementi propri di novene o altre pie pratiche…» (MC 31).

La limpida figura di Maria di Nazaret è stata inquinata nei secoli da una pioggia di pseudo-apparizioni. Secondo un cliché ormai stantio, banale e ripetitivo, esse ci presentano una madonna-giramondo sempre loquacissima che, apparendo un po’ qua e un po’ là, affida misteri e segreti a persone d’ogni genere; persone che forse avrebbero bisogno di un buon psichiatra.

Sempre pronte a versar fiumi di lacrime (meglio ancora se di sangue), queste «madonne» minacciano spaventosi castighi sull’umanità che definiscono sempre corrotta, malvagia e miscredente.

Alla cristallina luce dei Vangeli, tutto questo non può essere considerato altro che ciarpame, anche se talvolta ben confezionato: non dobbiamo avere né timori, né tentennamenti nel gettarlo risolutamente via.

 

Un esempio di formule venerande ma ormai inadeguate è la conosciutissima preghiera della Salve Regina (sec XI), composta dal monaco benedettino tedesco Ermanno di Reichenau, detto il contratto o lo storpio (lat.: Hermannus Contractus) (10131054),  venerato come beato. Figlio di nobili, nacque deforme e all’età di sette anni fu affidato al monastero benedettino di Reichenau. La sua grave malformazione fisica (non poteva stare eretto né tanto meno camminare) gli fece avere il soprannome, con cui è ancor oggi noto, di “contratto” Alla sua penna si deve la preghiera della Salve regina, dedicata alla Madonna:

Ad te clamamus, exsules filii Evae,

ad te suspiramus, gementes et flentes

in hac lacrimarum valle.

A Te ricorriamo, noi esuli figli di Eva;

a Te sospiriamo, gementi e piangenti

in questa valle di lacrime.

Questa preghiera si può comprendere benissimo datandola al tempo in cui fu scritta, dall’ambiente dove venne redatta e soprattutto da chi fu scritta, ma dopo mille anni avrebbe bisogno di essere se non pensionata almeno riveduta.

Questa spiritualità, che sguazza piamente nella valle di lacrime, vedrà il suo cantore in uno dei più grandi poeti del ‘300, Jacopone da Todi (1230-1306), che nel suo “O Signor per cortesia, mandami la malattia”, chiede a Dio di inviargli una cinquantina di malanni: dalla febbre continua all’idropisia, dal mal di denti al mal di testa e di ventre, la tisi, il fegato infiammato, gotta, emorroidi, ecc. Ma Jacopone non è soddisfatto e conclude il suo inno affermando: “Signore mio, non è una espiazione sufficiente questa sofferenza che ho descritto, perché tu mi hai creato per amore, e io ti ho ucciso per la mia folle ingratitudine”.

Nello stilare l’elenco dei malanni da chiedere al Signore per punirlo delle sue colpe, Jacopone si è ispirato alla cinquantina di maledizioni che il Signore scaglierà su quanti trasgrediranno la Legge divina, contenute nel Libro del Deuteronomio (Dt 28,15-68), elenco agghiacciante dove ogni malattia viene ricordata, dalla consunzione, la febbre, l’infiammazione, ulcere, scabbia, emorroidi “da cui non potrai guarire”, delirio, cecità, pazzia, ecc. Il sacro autore, preso dallo scrupolo di non aver elencato abbastanza disgrazie, scrive: “Anche ogni altra malattia e ogni altro flagello, che non sta scritto nel libro di questa Legge, JHWH manderà contro di te, finché tu non sia distrutto” (Dt 28,61).

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Riappropriamoci di Maria!

Non possiamo permettere che questo furto continui ancora.

È dannoso per lei e per noi; continuando di questo passo sarà sempre più difficile riuscire a «inquadrare l’immagine della Vergine, quale risulta da certa letteratura devozionale, nelle condizioni di vita della società contemporanea e, in particolare, di quelle della donna… che, lasciando ogni giorno di più l’ambiente ristretto del focolare, ha conquistato un posto pari a quello dell’uomo sia nel campo sociale che nel campo culturale» (MC 34).

Con questo libro intendo rivolgermi, pertanto, a quanti anelano a riscoprire la stupenda figura della giovane di Nazaret per amarla, mossi dalla «vera devozione che non consiste né in uno sterile e passeggero sentimento, né in una vana credulità, ma procede dalla fede vera, dalla quale siamo spinti all’imitazione delle sue virtù» (LG 67).

La riscopriremo così nostra sorella nella fede. È stato Paolo vi, il grande papa mariano, a rilanciare questo titolo (Discorso conclusivo del iii periodo del Concilio Vaticano ii), tanto caro e comune ai Padri: da Atanasio a Epifanio, da Agostino a san Cirillo d’Alessandria che giungeva al punto di chiamare… «nipote» Gesù, tanto era convinto che la Vergine fosse sua sorella! (In Joelem prophetam, I,1,VI,7. PG 71,340).

Sorella perché ce la ritroviamo accanto nel ripercorrere l’identico percorso di fede che, traducendosi in amore, ci porta alla piena comunione con Dio.

Itinerario d’amore e non di guerra.

Maria – e il cristiano con lei – non lotta, non combatte contro veri o ipotetici nemici.

Nessuna guerra.

Nessuna crociata: Gesù non chiede di combattere le tenebre, ma di splendere in mezzo a esse (Gv 1,5), di essere «luce del mondo» (Mt 5,14), e la luce non combatte, ma splende (cfr. Fil 2,15). La luce «splendore della vita» si afferma da sola.

Nel corso del libro il lettore si renderà conto che il famoso detto «Ad Jesum per Mariam» viene sostituito con il più appropriato «Ad Mariam per Jesum». I testi più antichi del Nuovo Testamento ignorano completamente la madre di Gesù (Paolo non ne accenna in nessuna delle sue lettere, e così Pietro, Giacomo, Giovanni e Giuda), oppure la presentano sotto una luce negativa (cfr. Mc 3,20). Sarà la successiva riflessione e presa di coscienza della grandezza e unicità di Gesù che faranno scoprire ai credenti il ruolo di Maria, e scopo di questa ricerca è tentare di vedere la grandezza di Maria indagando sulla figura di Gesù.

Inizieremo a percorrere questa strada di luce e di vita insieme a Gabriele, il messaggero divino. E fin dal primo incontro con Maria comprenderemo la statura, la vera grandezza della vergine di Nazaret (Lc 1,26ss).

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Una donna che il Vangelo pone in evidente antitesi con la figura di Zaccaria, il sacerdote tanto pio e devoto, talmente occupato a incensare e riverire Dio da non accorgersi di quanto Dio stesso vuole offrirgli.

Maria invece accoglie prontamente l’annuncio: dice subito di sì; si fida, pur senza capire appieno la portata della propria disponibilità. «Anche la beata Vergine», rileva il Concilio, «ha avanzato nel cammino della fede» (LG 58).

Zaccaria è solo un uomo di preghiera.

Maria è la contemplativa; colei che, vibrando in totale sintonia con l’onda d’amore che tiene in vita la creazione, continuamente si apre allo Spirito che «fa nuove tutte le cose» (Ap 21,5); diviene così capace di accrescere in sé la vita e di comunicarla all’intera umanità, trasformandosi nella «madre dei viventi» (LG 56).

La virtù di Maria, quella che la rende grande ai nostri occhi e che consente a tutte le generazioni di chiamarla «beata» (Lc 1,48), è la fede: «Beata te perché hai creduto alla parola del Signore!» (Lc 1,45). E non è stato facile per Maria credere. S’è trattato d’un cammino doloroso, impastato di sofferenza e difficoltà. Maria «soffrì profondamente col suo Figlio unigenito…», ci ricorda il Concilio (LG 58). E non solo sotto la croce. Con la sua presenza presso il patibolo del figlio giustiziato in nome di Dio, Maria divenne una sfida al potere religioso, alla famiglia, alle tradizioni. La sua intera esistenza fu un cammino compiuto nell’«incomprensione e nel dolore» (RM 16), senza alcun privilegio dal cielo, pur essendo la madre di Dio.

Nessun celeste favore per Maria che ce la possa far quindi sentire distante, inavvicinabile, inimitabile. Non c’è niente di lei che non possiamo rivivere anche in noi. Maria è segno tangibile di quel che Dio può realizzare con ogni creatura che non metta ostacoli alla potenza del suo amore.

La Chiesa ci presenta Maria «Immacolata»?

Anche noi siamo invitati – come scrive Paolo agli Efesini – «ad essere santi ed immacolati per mezzo della carità» (Ef 1,4. Cfr. Fil 2,15). La carità, cioè l’amore gratuito che è capace di dirigersi anche verso chi non lo merita, rende pure noi «immacolati», come ben esprime la colletta della festa dell’8 dicembre:

O Dio, che nell’immacolata concezione della Vergine hai preparato una degna dimora per il tuo Figlio, e in previsione della morte di lui l’hai preservata da ogni macchia di peccato, concedi anche a noi, per sua intercessione, di venire incontro a te in santità e purezza di spirito…

Anche a noi – come a Maria – Dio continuamente invia «messaggeri divini», invitandoci a realizzare in pienezza la nostra esistenza mediante un frutto continuo d’amore e a collaborare con lui nel comunicare vita all’umanità.

Certo che non dobbiamo attendere l’arrivo di pennuti svolazzanti che ci vengano a proporre la volontà di Dio, ma occorre, a noi come a Maria, una grande sensibilità e apertura al nuovo per cogliere gli inviti che Dio continuamente ci fa attraverso persone, emozioni e situazioni della nostra esistenza.

Lo straordinario privilegio di essere la madre di Gesù è solo per Maria? Da sempre nella mariologia si è sottolineato che il valore della maternità di Maria non consiste nel fatto puramente fisico, ma in quello spirituale: è l’avere accettato e seguito Gesù quel che rende grande Maria, non l’averlo partorito. E questa maternità spirituale non è un privilegio legato a un’unica persona, ma una possibilità che può essere vissuta da tutti: «Chi compie la volontà di Dio, costui è mia madre…» (Mc 3,35). Alla lode per la maternità fisica di Maria, Gesù contrapporrà «Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,28). Beatitudine che veniva così commentata da Giovanni Crisostomo (iv secolo):

Quante donne hanno proclamato beata quella Vergine santa e benedetto il suo seno; come avrebbero desiderato essere madri come lei e avrebbero dato tutto per tale maternità. Ebbene, chi impedisce loro di avere un tale onore? Ecco, Cristo ci apre una via ampia ed è possibile non solo alle donne, ma anche agli uomini giungere a così alta dignità, anzi, per meglio dire, egli ci offre un onore ancor più elevato. Infatti il compiere la volontà del Padre ci fa madre di Cristo assai di più che averlo dato alla luce naturalmente. Se, dunque, quella maternità fu beatitudine eccelsa, assai più grande e ancor più efficace è questa (In Matthaeum 44. PG 57,463-466).

Per quel che riguarda la Vergine Addolorata troppo è stato accentuato il dolore di Maria presso la croce! (Dolore, tra l’altro, a cui l’evangelista non accenna minimamente: è Jacopone da Todi che nello splendido Stabat Mater presenta Maria «dolorosa» e «lacrimosa», non Giovanni nel suo vangelo.)

Nell’«Addolorata» Maria sembra bloccata a un momento della sua esistenza che non le appartiene più. Una Maria rimasta come paralizzata dal dolore per la morte del figlio e all’oscuro della resurrezione.

La coloratura a favore dei sentimenti è andata a discapito dei motivi che hanno portato Maria presso il patibolo del figlio: Maria è in piedi (gr. heistêkeisan, Gv 19,25) presso la croce. Non è stata trascinata dagli eventi, è volontariamente presente. Non è una madre schiacciata dal dolore, che comunque sta vicina al figlio, anche se questo è un delinquente, ma la coraggiosa discepola che ha scelto di seguire il maestro a rischio della propria vita.

Con la condanna a morte di Gesù, Maria si è trovata di fronte una sfida tremenda: da un lato il criminale e dall’altro i suoi giudici.

Doveva scegliere. Non poteva rimanere neutrale.

Gesù l’aveva detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30). E Maria ha fatto la sua scelta: presso la croce non c’è solo una madre che «soffre per» il figlio, ma la donna che «soffre con»1 l’«uomo dei dolori» (Is 53,3; Rm 8,17). Maria accoglie e fa suoi i valori di Gesù e si pone a fianco del giustiziato contro chi lo ha condannato, schierandosi così per sempre a favore degli oppressi e dei disprezzati. Come Maria, ogni autentico discepolo di Cristo è pertanto chiamato a stare dalla parte della croce per collaborare attivamente con Colui che «rovescia i potenti dai troni» (Lc 1,52) e smascherare i nemici mortali di Gesù e dei suoi discepoli, che verranno «percossi nelle sinagoghe» (Religione), «condotti di fronte ai governanti» (Patria) e «messi a morte dai loro familiari…» (Famiglia) (Mc 13,9-13).

Maria è «assunta» in cielo? «Tale glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli», afferma la Marialis cultus (6). Anche noi, se mettiamo nella nostra vita una qualità d’amore che assomigli a quella di Gesù, fin da adesso «sediamo nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,6); siamo come lui vincitori della morte e continueremo a vivere per sempre (Gv 11,25) come prega la Chiesa:

… anche noi possiamo per intercessione della Vergine Maria giungere fino al Padre nella gloria del cielo (colletta del 15 agosto).

Spero si possa percepire tutto questo leggendo le pagine del libro; si tenga sempre presente l’ottica con cui è stato pensato e scritto: vedere Maria con gli occhi di un abitante di Nazaret, e Gesù con gli occhi di Maria e della sua famiglia. Per questo, durante la stesura del testo, ho cercato di trasfondere il più possibile una mentalità semitica nelle espressioni, avendo cura di far sempre risaltare l’enorme scandalo che, per una persona religiosa dell’epoca, hanno rappresentato la figura di Maria prima e quella di Gesù poi.

Naturalmente era impossibile ricostruire il personaggio Maria con i pochi – seppure preziosi – dati riportati dai vangeli. Ho cercato di inquadrare la madre di Gesù calandola nel contesto culturale dell’epoca, servendomi della letteratura e dei documenti contemporanei, utilizzando di preferenza quelli che riflettono meglio il particolare clima del giudaismo, periodo in cui Maria e Gesù sono vissuti.

Lo scopo di questa ricerca pertanto non è tratteggiare un’impossibile «vita» di Maria o di Gesù, come non è una lettura esegetica dei testi che li riguardano, ma una rilettura della figura della Madre di Dio, non più ridotta a un’icona solo da venerare, ma scoprendola come una persona con cui camminare verso la piena realizzazione del Regno di Dio.

Confido infine che il lettore tenga ben presente il diverso valore da assegnare alle fonti usate. Un conto è una citazione del Vangelo e altro è l’uso di un apocrifo. Soprattutto lo prego di tener presente il diverso grado d’importanza da attribuire a un detto di un Padre della Chiesa e alle affermazioni anticristiane di qualche filosofo della stessa epoca, riportate unicamente nel loro valore di chiacchiere, pettegolezzi, calunnie dell’epoca su Maria e Gesù. Ugualmente sono da prendere con le molle le affermazioni contenute nelle Toledòth Jeshu (testo redatto in epoca molto tarda ma le cui origini vanno collocate all’inizio della polemica con i giudeo-cristiani): storie diffamatorie su Gesù e la sua famiglia.

Ringrazio quanti hanno collaborato e permesso la realizzazione di questo libro: dai rabbini, che con tanta disponibilità mi hanno accolto nel corso delle ricerche permettendomi l’accesso al ricco e vasto mondo del Talmud, ai biblisti e mariologi consultati.

Note

1 Nell’«editio typica» del Messale romano il termine latino è compatientem, da pati-cum, impropriamente tradotto in italiano con «addolorata» (cfr. «condoluit» LG 58)

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it