Goblin mode: la moda del fare schifo, più universale del tubino nero

di Alice Basso | 05.06.2022

Non so voi, ma io ho iniziato a sentir spuntare un po’ ovunque il termine goblin mode e non è che abbia capito subito benissimo cosa fosse. Poi mi hanno segnalato questo articolo, che a sua volta cita questo e questo, e l’ho capito (e mi sono anche chiesta se non dovessi preoccuparmi un filo per il fatto che me li avessero segnalati, come intuirete fra un attimo).

In sostanza, andare in goblin mode significa – fatemi trovare dei termini pubblicabili, che c’è il rischio che qualcuno di voi stia leggendo mentre mangia – smettere di occuparsi di quisquilie quali l’igiene personale e domestica, il rigore alimentare, l’estetica del vestiario, insomma campare in un pigiama chiazzato ecumenicamente di latte e sugo, ignorando piatti da scrostare, lenzuola da cambiare e docce in trauma da abbandono, e orbitando come le scimmie di 2001: Odissea nello spazio attorno all’unico attrezzo indispensabile all’esistenza: il pc portatile.

Insomma: abbrutirsi come se non ci fosse un domani, letteralmente come se non ci fosse un domani, visto che è un modus vivendi che mezzo mondo ha iniziato a coltivare dal lockdown, cioè da quando le nostre convinzioni sulla vita, gli anticorpi e tutto il resto hanno vacillato come vasi Ming a una festa di gomiti, e quando la vita e gli anticorpi perdono di significato e ogni giorno potrebbe essere la vigilia dell’Apocalisse cosa vuoi che conti se vai in giro in tuta o meglio, dopo una certa soglia, una tuta va in giro con dentro te.

Ora.

Scopro dunque che ‘sto goblin mode (che continuerò a chiamare così perché volete mettere, è come dire “fare schifo tutto il giorno” ma facendolo sembrare trendy) ultimamente viene ammantato di rivendicazioni sociali.

Sarebbe a dire che una percentuale di influencer ha iniziato a farsi foto e video in goblin mode e a scrivere nelle caption non l’onesta verità, ossia che neanche loro c’han sempre voglia di metterci due ore e un quarto per lavarsi i capelli con sedici balsami e due phon brevettati dalla NASA, bensì slogan come “Rivendico il mio diritto di fare schifo”.

In contrapposizione, ovviamente, a quegli altri influencer – poveri retrogradi – che per anni hanno promulgato l’“estetica della ciambella glassata” (altra espressione meravigliosa), ossia ci hanno fatto credere che bisognasse essere costantemente lindi e lucidi e rosaglitterati, indossare completini carini a colori abbinati pure per far ginnastica a casa e in mano, possibilmente, avere sempre un centrifugato di broccoli e zenzero.

Questo è il punto in cui capite che mi son preoccupata per il fatto che m’avessero chiesto un parere a riguardo.

Cioè, come se io fossi un’esperta di goblin mode.

Una fautrice del goblin mode.

Cosa diavolo cercavate di insinuare?!

Ma questa è una faccenda fra me e loro. Torniamo a noi.

Ora 2.

Io penso, questo va detto, che il goblin mode, se non altro, sia Verità. 

Il goblin mode esiste. È praticato. È uno stile di vita che viene adottato da ben prima che si sentisse il bisogno di definirlo una moda.

Il goblin mode è quando peschi il pigiama al buio nel cassetto per non svegliare il partner che dorme, e la mattina ti scopri addosso la felpa sdrucita dei mondiali di Italia ’90 abbinata ai pantaloni di cotone dall’elastico slargato stampati a orsetti.

È quando ti rendi conto che c’era un motivo se sul Post-it attaccato alla porta avevi scritto “Fare la spesa!!!” anziché “Fare la maratona di The Mandalorian, ma uscire adesso significherebbe lavarsi e vestirsi e alla fin fine quel barattolo di cetriolini avanzati in frigo da soli due anni per pranzo andrà benissimo.

È quando la tua amica dai folti e fluenti riccioli mogano ha l’appuntamento dal parrucchiere mercoledì, ma tu il martedì le proponi un’uscita e lei ti arriva con una ricrescita unta color ratto (da Pantène a Pantègane è un attimo, sappiamo) perché a volte c’è un tempo per il decoro e c’è un tempo per lo spritz.

È “non capisco perché rifare il letto se ogni sera devo disfarlo di nuovo”.

È quello a cui assiste il corriere medio ogni volta che suona a un citofono.

Parentesi. Pensateci. Chi ha deciso di cavalcare la moda del goblin mode dev’essere di certo stato consigliato da una commissione di corrieri. Loro sapevano. Sapevano meglio di tutti quanto il goblin mode venisse già praticato dalle persone nel chiuso delle proprie case. E che chiunque l’avesse elevato a trend avrebbe già avuto lì pronto tutto un mondo di seguaci.

Quante calze antiscivolo arricciate come shar-pei dentro scarpe da ginnastica indossate a ciabatta, col tallone di fuori, han dovuto vedere in questi anni i poveri occhi dei corrieri?

Quanti cappotti sopra a pantaloni del pigiama?

E già a essere fortunati, pantaloni.

Quante barbe a zerbino di cocco, palpebre siliconate di cispe, solchi di cuscino sulle guance tipo cicatrici di Inigo Montoya?

Il popolo del goblin mode era lì, già pronto. Solo che, essendo composto da singoli satelliti sparpagliati, isolati nelle proprie casette e intimamente vergognosi di sé, era un popolo inconsapevole della propria potenza, al quale un cartello di biondine dalle unghie miniate come capilettera di messali poteva continuare a far credere che in casa si dovesse per forza trascorrere il tempo nella posizione del loto a sorseggiare smoothie bio allo spinacio attendendo che sui capelli facesse effetto la maschera bio all’avocado (o a sorseggiare la maschera bio all’avocado lasciando agire in testa lo smoothie bio allo spinacio, tanto la differenza com’è noto è minima).

Ora 3, io non è che sia una fan del goblin mode (lo dico per chi mi ha chiesto. Tanto per chiudere la questione una volta per tutte). Voglio dire, io posso benissimo vegetare davanti a un monitor lasciando aspettare la doccia come uno spasimante sfigato, ma non è che ne vada fierissima. Però per una cosa sì, la devo ringraziare, questa nuova tendenza. Questo sdoganamento di quanto ci si possa lasciar andare, questo aver fatto un po’ tutti il callo a gente con i capelli da cuscino e i vestiti da petardo nell’armadio. E cioè che adesso, se ci fate caso, quando per esempio in un film o in una serie tv devono mostrare, che so, una donna con l’esaurimento nervoso o la depressione, tendono a essere un filo più sinceri.

Donna con esaurimento nervoso, una volta:

  • négligé con spallina abbassata a suggerire trascuratezza;
  • calza nera velata, ma smagliata (come se ci fosse bisogno della depressione: basta il bulloncino del sedile della metro e niente pacchetto di ricambio in borsa). Oppure piedi scalzi, ma con unghie impeccabili;
  • capello raccolto a caso (e ogni donna che abbia mai avuto i capelli lunghi sa che lo chignon finto spettinato con le ciocchette méchate che sfuggono è uno degli effetti più ricercati e più chic che si possano inseguire, di solito inutilmente);
  • sigaretta, che fa sexy e maledette dal 1920 (e dovrebbe avere smesso di fare sexy e maledette dal 1921, ma okay).

In pratica: una versione un po’ meno grunge delle foto più studiate di Courtney Love.

La cosa più vicina al vero goblin mode che abbia mai visto sullo schermo negli scorsi decenni:

  • Meg Ryan con l’influenza in C’è post@ per te, che apre la porta con il trench sopra al pigiama, in una nuvola di fazzoletti usati e col naso da clown.

Sì.

Peccato che fosse Meg Ryan.

Una che ha costruito la propria identità (specialmente in quel film) su un taglio di capelli finto spettinato, la parola chiave essendo “finto”, come sa chiunque abbia mai provato a replicarlo a casa e abbia finito per gettare la spugna e girare uno stipendio al parrucchiere.

Adesso invece mi dicono che in Euphoria, per esempio, è stata fatta una delle rappresentazioni più franche e realistiche della depressione femminile. Di cosa diventa effettivamente una ragazza quando si lascia andare. Finalmente, commenterei.

Solo che “mi dicono”, perché io non l’ho ancora visto. È che un po’ ho paura: ho paura di scoprire che Zendaya in goblin mode sia comunque molto, molto meglio di me in versione “prima domenica pomeriggio libera da tre mesi”. Perché, naturalmente, lei è Zendaya: sotto alle coperte ispide di briciole di patatine biascicate a bocca aperta e alla maglietta leopardata di macchie c’è comunque Zendaya. E a me non basterebbero litri di maschere bio allo spinacio, da applicare o da bere, per diventare così.

Ragà, guardiamo in faccia la realtà: pure in goblin mode, c’è goblin e goblin.

L’AUTRICE – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani SarcaL’imprevedibile piano della scrittrice senza nomeScrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittoreLa scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta, e nel 2021 è stata la volta de Il grido della rosa.

Arriva ora in libreria per Garzanti Una stella senza luce, che ci porta a Torino nel 1935. Il lunedì di lavoro di Anita inizia con una novità: Leo Luminari, il più grande regista italiano, vuole portare sul grande schermo uno dei racconti gialli pubblicati su Saturnalia, la rivista per cui lei fa la dattilografa. Questo significa seguire il dietro le quinte e intervistare gli attori per poi riportare tutto in un’appendice speciale. Tutto quello che ogni donna di quegli anni ha sempre desiderato. E che anche Anita desidera, non indifferente al fascino di quest’arte. Ma la sorpresa per Anita dura solo pochi giorni, fino a quando il corpo senza vita del regista non viene ritrovato nella sua stanza. Con lui finisce il sogno di conoscere tutti i segreti del mondo del cinema. E c’è anche qualcosa che inizia in quell’esatto istante. Qualcosa che può essere molto pericoloso per Anita. Perché dietro quella morte potrebbe nascondersi la censura del regime la cui ombra potrebbe allargarsi fino alle pagine di Saturnalia. Anita e il suo capo, Sebastiano Sacco Ascona, sanno che per loro questo non può accadere. Hanno troppi segreti che devono rimanere tali.

Non rimane altro che indagare e ficcare il naso tra spade, parrucche e oggetti di scena. Tra amicizie e dissapori che uniscono vecchi divi, ormai stelle che hanno perso la loro luce. Ogni passo falso può essere un azzardo, ogni meta raggiunta può rivelarsi sbagliata. Anita sa ormai come funziona. Eppure questa volta è più difficile, forse per colpa di quell’incubo che non la lascia in pace. Un incubo in cui lei ha un abito da sposa, ma nero. Perché come le pagine di un libro i giorni passano e portano verso il raggiungimento di una promessa, anche se si vuol fare di tutto per non attenderla.

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Fonte: www.illibraio.it