Il mitologico nei libri: quando tradizione significa modernità

di Stefano Risso | 19.12.2020

A dispetto del proliferare di una snack culture virtualmente digitale e ontologicamente effimera (nonché destinata, per sovrabbondanza di contenuti, ai campi elisi di una subitanea obsolescenza) traspare, nell’apparente classicismo della narrazione mitologica – in senso ampio intesa, ivi comprese le derivazioni stilistiche post-millennial, dalla serie tv Kaos, di prossima uscita per Netflix, ai podcast Myths and Legends e Greeking out sulle piattaforme Apple e Spotify – una immediatezza comunicativa tale da rendere perennemente attuale qualsiasi storytelling che, sui telai del favoloso, abbia fondato il proprio sviluppo.

Concepita, d’altronde, quale strumento primario nella diffusione del quotidiano – “la principale differenza fra i miti greci e i miti d’oggi sta nel fatto che le vicende private dei personaggi allora venivano affidate alla tradizione orale piuttosto che alle pagine dei rotocalchi. Ma il succo è lo stesso: non a caso (…) mythos in greco vuol dire racconto”, Luciano De Crescenzo, I grandi miti greci, Mondadori – la retorica del leggendario  rappresenta, per il lettore predisposto alle contaminazioni fantastiche, non solo un laboratorio creativo, metafisico e atemporale, in cui aprirsi al potenziale incontro fra mortalità terrena e Pantheon soprannaturale, ma anche, e soprattutto, una traduzione implicitamente allegorica delle principali questioni che, di epoca in epoca, maggiormente interessano l’individuo nel proverbiale cammino alla scoperta del sé.

In tal senso, dove, per antonomasia, l’Odissea di Omero allude, su tutte, allo sviluppo personale dell’uomo lungo una società dalle mille peregrinazioni – “Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo”, sostiene Cesare Pavese in Dialoghi con Leucò, Einaudi – è nella numerosità delle sue divagazioni (dalle cosmologie di stampo filosofico suggerite da Platone nel Timeo, in Platone – tutte le opere a cura di Enrico V. Maltese per Newton Compton, alle riscritture romanzate di personaggi religiosi come in Caino di Josè Saramago, traduzione di Rita Desti, Feltrinelli, passando per le moderne mitopoiesi letterarie dell’umoristico Mondo Disco di Terry Pratchett, traduzione di V. Daniele, Salani, sino infine alla mythic fiction negli young adult dell’Awakening Series di Josephine Angelini, traduzione di M. Rossari, in Italia per Giunti) che, inequivocabilmente, emerge la capacità del mitico di perfettamente aderire ai tessuti letterari variamente disparati, costituendo un indiscutibile esempio di non contemporaneità del contemporaneo. Già, perché nell’esplorare una dimensione antica e immaginifica – quella del divino che si sovrappone al mondano, si veda Olympos di Dan Simmons, traduzione di G.L. Staffilano, Mondadori, o La mia vita nel bosco degli spiriti di Amos Tutuola, traduzione di Adriana Motti, Adelphi – la partecipazione del mito nel romanzo muta da mera interpretazione stilistica (inizialmente destinata alla comprensione di fenomeni naturali o a interrogativi sull’esistenza e sull’universo) a vero e proprio assetto narrativo, trasferendo nel lettore non solo il codice genetico di una realtà in costante metamorfosi, ma altresì suggerendo allo stesso strategie essenziali per riuscire ad affrontare le interferenze dell’imponderabile sulle dinamiche del percorso (quasi a sostenere che la narrativa di carattere mitologico faciliti la collettività nell’accettazione di nuovi stilemi sociali).

Non a caso, se implicita nella figura del prode è la propensione a divenire modello individuale di riferimento – dalla dislessia del problematico figlio di Poseidone in Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo di Rick Riordan, traduzione di Loredana Baldinucci per Mondadori, alle stravaganze dell’outsider Leopold Bloom nell’Ulisse di James Joyce, traduzione di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi, Newton Compton, ogni protagonista del mitologico condivide con il lettore vizi e virtù dell’essere umani – è principalmente nelle drammatiche sfide che l’eroe è chiamato ad affrontare – si veda il supplizio del fuoco nel Prometeo incatenato di Eschilo sconterai fino in fondo vastissimi anni, per riemergere al Sole. Allora il segugio di Zeus, l’aquila striata di sangue, golosa, farà macello di te, cencio smisurato di carne”, ma anche la condanna a morte dell’Ippogrifo Fierobecco, metà aquila metà cavallo, in Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban di J. K. Rowling, traduzione di Beatrice Masini, Salani: “Abbiamo deciso di accogliere la protesta ufficiale del signor Lucius Malfoy e il caso sarà dunque sottoposto al Comitato per la Soppressione delle Creature Pericolose” – la maturazione di quella propensione al problem-solving (o intelligenza pratica, così come approfondita ne Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia di M. Detienne e J.P. Vernant, traduzione di A. Giardina, Laterza) in grado di elevarlo da uomo del popolo ad archetipo letterario del nuovo paradigma percettivo.

Che si tratti, infatti, dell’ancestrale furbizia con cui Giacobbe priva del diritto alla primogenitura il gemello Esaù (diventando così padre dell’Ebraismo nonché eponimo del popolo di Israele, come raccontato nella tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, a traduzione di Bruno Arzeni per Mondadori), o del sacrificale espediente con cui Iron Man ruba le Gemme dell’Infinito al meraviglioso cattivo Thanos (nella sceneggiatura di Avengers: Endgame, a penna dei fratelli Russo), è proprio nel repertorio di folkloristiche genialità che il mito dischiude inaspettate alternative sui corsi e ricorsi del narrato, tragittando il sentimento pubblico verso le conquiste dell’ammodernamento intellettuale.

A riprova di ciò, strategie comunicative le più innovative e articolate sono, ancor oggi, solite ricorrere al crogiolo del mitologico per sensibilizzare la compagine sociale su temi eticamente sensibili, attuando quel meccanismo, (genericamente definito di cross-cultural-consciousness, o coscienza interculturale), necessario a sedimentare nell’opinione pubblica prospettive consapevoli ed evolute: tanto per le nuove frontiere del femminismo delineate nei ritratti di Morgana di Chiara Tagliaferri e Michela Murgia (Mondadori) – che, nel tracciare i profili di dieci donne straordinarie rievocano, quale madrina d’eccezione, la sorella fatata del ciclo arturiano – che per la riaffermazione della tradizione afro-americana nell’epica spirituale Leopardo nero, Lupo rosso di Marlon James, (traduzione di Paola D’Accardi, Frassinelli) – primo fantasy della trilogia Dark Star, nonché ulteriore espressione del sentimento #blacklivesmatter – quanto per la  discussione sulla presenza LGBTQ nel multiverso Disney (recente l’introduzione del primo personaggio bisex in una puntata di The Owl House, serie animata ambientata su di un arcipelago sorto, non a caso, sui resti di un antico Titano) che per le riflessioni sui culti di nuova generazione (e delle loro incarnazioni romanzate a nome Ragazzo tecnologico, Tv e Media) in American Gods di Neil Gaiman, traduzione K. Bagnoli, Bompiani, sempre più spesso il meccanismo della divulgazione letterariamente intreccia quello del mitologico, intervenendo così (quale moderno deus ex machina) per anticipare, nel presente, le rivoluzioni della Storia.

Perchè, se come sostiene J.R.R. Tolkien in Il Medioevo e il Fantastico, traduzione di C. Donà, Bompiani, “La creazione di linguaggi e della mitologia sono attività correlate”, allora è proprio sui titoli di un passato leggendario che, dalla notte dei tempi, evolutivamente poggia il racconto di un favoloso futuro (come ci insegnano gli intramontabili romanzi che, lungo i fasti dell’Olimpo, qui di seguito vi segnaliamo). 

La canzone di Orfeo di David Almond

La canzone di Orfeo

Elegia sentimentale di virgiliana passione, ma pur anche sinfonia pop per malinconiche playlist, è nel ricordo della giovane Claire “Io sono la sopravvissuta. Quella che racconta la storia. Li conoscevo entrambi, so come hanno vissuto e come sono morti. Non è passato molto tempo da allora. Sono giovane, come loro (…) Riporterò nel mondo la mia amica per un’ultima notte e poi la lascerò andar via per sempre” che La Canzone di Orfeo di David Almond – traduzione di Giuseppe Iacobaci e di Wendell Rickets, Salani – ripercorre, lungo gli argini del fiume Tyne, le contraddizioni di un legame adolescenziale (quello fra la sognatrice Ella e l’enigmatico Orpheus) destinato, per continuità di narrazione, alle incontrovertibili litanie del tragico. Già prolifico autore di numerosi romanzi per ragazzi (fra i tanti, per Salani, Skellig, Argilla, La vera storia del mostro Billy Dean e Il ragazzo che nuotava con i Piranha) Almond accede stavolta alle narratologie del mito ellenico di Orfeo ed Euridice rileggendole in young adult, ma con fedeltà e maturità di sguardo. D’altronde, certi amori, non finiscono. 

Il Canto di Penelope di Margaret Atwood

Il Canto di Penelope

Per certi versi (quelli del mito) non meno distopico del suo celeberrimo Il racconto dell’Ancella, Il Canto di Penelope di Margaret Atwood (traduzione di Margherita Crepax, Ponte alle Grazie), spalanca un’inaspettata finestra sul quotidiano della leggendaria moglie di Ulisse, Penelope, suggerendo al lettore una prospettiva nuova – e narrativamente inedita – del tradizionale racconto ellenico. Così l’autrice, alla ricerca di un’alternativa storica, in introduzione: “Ho scelto che le voci narranti fossero quelle di Penelope e delle dodici ancelle impiccate. Le ancelle formano un Coro, scandito e cantato, incentrato su due domande che s’impongono dopo un’attenta lettura dell’Odissea: che cosa ha portato all’impiccagione delle ancelle e che cosa c’era davvero nella mente di Penelope? La storia, così come viene raccontata nell’Odissea, non è del tutto logica: ci sono troppe incongruenze. Sono sempre stata tormentata dal pensiero di quelle ancelle impiccate e, nel Canto di Penelope, anche Penelope lo è”. Affinché la fiction poetica torni a dialogare con la verità.

I miti degli indiani d’America di John Bierhost

I miti degli indiani d’America

Per dettaglio informativo assimilabile agli altri, imperdibili, di edizione Longanesi (da I miti greci e I miti ebraici di Robert Graves, da I miti nordici di Gianna Chiesa Isnardida a I miti egizi di Boris De Rachelwitz) è davvero I miti degli indiani d’America di John Bierhost manuale di saggistica meritevole di attenzione, e non solo per aver narrativamente esplorato un patrimonio tradizionale in gran parte sconosciuto (quello autoctono di Sioux, Navajo, Eschimesi e Cheyenne) ma, soprattutto, per aver ricostruito le peculiarità (storiche e spirituali) dei nativi americani, a tutt’oggi, e spesso silenziosamente, vittime di aberranti negazionismi, confinamenti razziali e soprusi culturali. E fra animali totemici, leggende Okanagon e resoconti verificabili, l’intero patrimonio di una civiltà che, sopravvissuta a indicibili sofferenze, ha fatto del mitologico motivo, e vanto, della propria resistenza e affermazione.

Circe di Madeleine Miller

Circe

Intellettuale statunitense ed esperta di lettere classiche, Madeleine Miller (che nella sua opera prima La Canzone di Achille, traduzione di Maura Parolini e Matteo Curtoni, Sonzogno, ha emotivamente esplorato il tragico idillio d’amore fra il figlio di Peleo e lo splendido Patroclo), nel più recente Circe, traduzione di M. Magrì, Sonzogno, ridisegna i profili della leggendaria figlia di Helios cesellandone i contorni oltre le tradizionali marcature della consuetudine omerica. Ciò che ne emerge è un affresco dettagliato e policromo di una leader femminista ante litteram, potente nel proprio esilio e divina nella presa di coscienza della propria maestosità. Per immaginare, senza pregiudizi, la storia di una donna (non più strega) che, prima fra tutte, si è fatta da sé “Nacqui quando ancora non esisteva nome per ciò che ero. Mi chiamarono ninfa, presumendo che sarei stata come mia madre, le zie e le migliaia di cugine. Ultime fra le dee minori, i nostri poteri erano così modesti da garantirci a malapena l’immortalità”.

Elena di Sparta di Loreta Minutilli

Elena di Sparta

Sorpassato esempio di damsel-in-distress (o damigella in pericolo), e spesso considerata causa prima della scia di devastazione tracciata dalla sua incomparabile bellezza – con irreparabile senso di colpa della stessa, che la portava ad autodefinirsi, nell’Iliade omerica, perversa e abominevole – la Elena di Sparta di Loreta Minutilli (Baldini+Castoldi) si riappropria, finalmente, di una voce personale e moderna – verrebbe da considerarla un’antesignana vittima di beauty shaming – liberandosi così dell’aura di eterno femminino che tradizionalmente la imprigiona. Con lei (una donna a tutto tondo, costretta al silenzio in una società patriarcale e misogina) muove l’anelito di una tanto agognata uguaglianza di genere, ancor oggi – e a distanza di millenni – troppo spesso ostacolata o aprioristicamente temuta: “Quante volte avevo ostentatamente invidiato il potere racchiuso nelle mani di Menelao, la sua possibilità di far accadere una cosa anziché un’altra, realmente e non per vie traverse come me”.

Le parole segrete di Johanne Harris

Le parole segrete

Originale aedo del mito norreno, con il suo Le parole segrete, traduzione di Laura Grandi, Garzanti, (primo volume della saga Runemarks, nonché prequel del successivo Le parole di luce e dell’inedito The Gospel of Loki) l’acclamata autrice di Chocolat introduce il lettore al post Ragnaròk – la Fine del Mondo, secondo il folklore nordico – del villaggio di Malbry, quando la reietta Maddy (marchiata, sin dalla nascita, dall’impressione di una misteriosa Runa) muove vendetta contro le discriminazioni di casta imposte dal nuovo Ordine (che, tirannicamente insediatosi dopo la sconfitta delle divinità classiche, Æsir e Vanir, ha bandito dal regno gli incantesimi e la magia). Costellata di simboli arcaici, misteriose mappe e leggendarie divinità (da Odino a Thor, da Frigg a Loki), la mitopoiesi della Harris ci accompagna in un suggestivo viaggio nei territori della tradizione, motivandoci a riscoprire, attraverso le narratologie del fantasy, il legame indissolubile che lega ognuno di noi alle proprie radici più profonde (quelle dell’Yggdrasil, l’albero cosmico che sorregge i nove mondi).

Autobiografia del Rosso di Anne Carson

Autobiografia del Rosso di Anne Carson

Con un approccio visionario e antropologico sull’accettazione della propria identità (altri non è Gerione che il Gigante del mito ellenico narrato dal poeta Stesicoro, qui vittima di abusi e tenerissimo mostro alato innamorato del sedicenne Eracle) il romanzo (in versi) Autobiografia del Rosso di Anne Carson (traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani) traccia non solo le dinamiche di una passionale coming-of-age fra adolescenti ma, altresì, quelle di una consapevolezza sentimentale destinata alle inevitabili riorganizzazioni della maturità. Fintantoché, sulle pendici di un vulcano mai quiesciente, il gioco rosso delle parti (stavolta riacceso dalla presenza di Ancash, distrattivo amante di un ritrovato Eracle) esplode di nuovo – e, questa volta, definitivamente – lasciando però, dell’idillio di gioventù, solo la memoria di una fotografia istantanea, ma oramai troppo sfocata per poter essere sviluppata nel sempre.

I Mabinogion di Evangeline Walton

i Mabinogion

Nel romanzare le prose medievali dei manoscritti gallesi del Mabinogion (inaccessibile testo celtico di antichissima discendenza, a lungo tramandato solo per via orale) la raffinata autrice statunitense Evangeline Walton affida alla narrativa fantastica la rielaborazione di una tetralogia dalle marcate affinità con il ciclo arturiano e coi romanzi cortesi francesi. Raccolti dunque in un unico volume, i quattro libri del Mabinogion (Il principe dell’Annwn; I figli di Llyr; La canzone di Rhiannon; L’isola dei potenti, traduzione di B. Besi Ellena e di H. Brinis, TEA), muovono una danza folklorica nelle ambientazioni della tradizione celtica, attualizzando un’opera ancestrale in una moderna riscrittura alla J. R. R. Tolkien. Con una particolare profeticità: nelle visioni futuristiche degli antichi druidi, tutto lo sconforto del tempo contemporaneo, quando l’Invisibile sarebbe andato perduto, e solo l’immaginazione avrebbe potuto raccontarlo. 

Fonte: www.illibraio.it