Lo spauracchio delle “Mary Sue” e cosa significa creare “un protagonista forte”

di Alice Basso | 13.07.2021

Quando, nel Cretaceo, andavo a chiacchierare nelle scuole, nei licei mi sentivo spesso presentare le classi in questo modo: “Troverai un sacco di ragazzi che vogliono scrivere, quindi ti chiederanno per esempio come si costruisce una trama, come si inizia un libro, come si inventa un protagonista forte”.

Ora, coi ragazzi ci si diverte. Quando parli agli allievi adulti delle scuole di scrittura devi andarci un po’ cauto, perché non sai mai se di fronte hai quello che la prende con curiosità e allegria, o quello dalla depressione facile o il commento amaro su tutto. Ma coi ragazzi puoi scherzare: sono talmente abituati a provocare e a essere provocati tutto il giorno, a scuola e a casa, da compagni, fratelli e professori, che la punzecchiata nel peggiore dei casi li sveglia dal coma postprandiale (maledette attività didattiche del primo pomeriggio) e, nel migliore, è l’anticamera di un “Oh, oggi è stata proprio una lezione fighissima”.

Quindi: “Come si scrive un personaggio forte?”

“Be’, vediamo: cosa intendi per forte?”

“Cos… be’, forte nel senso che… insomma, che leggi quello che fa, che dice, che pensa, ed esclami: che forte! Lo/la vorrei come amico/a!”

(“Eheh. Ora ci si diverte.”) “Ah, cioè, forte nel senso che fa ridere. Tipo: questo è troppo forte! Be’, allora basta fargli o farle dire o fare o pensare cose che facciano ridere.”

“Ma no! Intendo, che forte nel senso di… be’, che figo, che ganzo!” (Quest’ultima se son toscani.)

“Allora lo devi fare figo.”

“Ma non figo figo! Forte nel senso di…”

“Di forte che sgomina i nemici?”

“Nooo! Uffa, nel senso di…” (A questo punto han capito dove vuoi arrivare e stanno ridendo anche loro.) “Ma sì, che ha capito anche lei!”.

A parte quel “lei” – che, lo dico a tutte le quarantenni che si vestono in maniera disperatamente giovanile come me: mettetevi l’animo in pace, è inestirpabile –, questa è una conversazione meravigliosa. Perché in tre battute tutti in classe, anche quello che digeriva il panino sonnecchiando all’ultimo banco, han capito benissimo che forte non significa “forte”. E neanche “divertente”, e neanche “figo”. O meglio, può significare tutte queste cose ma nessuna necessariamente (potevo dire “nessuna per forza”, ma okay).

E comunque è vero che, sì, certo che l’ho capito anch’io cosa intendessero con quel forte. Lo capiamo tutti, a intuito: definirlo sarà più scivoloso, ma, a istinto, quando becchiamo in un libro un personaggio “forte” lo avvertiamo subito tutti quanti.

È quel personaggio che ti fa dire “Oh, sì! Vai! Digliele!”.

Che ti fa dire: “Dio, quanto mi piacerebbe in quella certa situazione essere un po’ come lui”.

Che se qualcuno ti fa notare che però, poniamo, alla fine viene sconfitto, a te sale l’indignazione interiore e ribatti: “Sì, ma con quanto onore s’è battuto, scusa?!”.

Perché dei personaggi forti non ci piace per forza (ehm) il fatto che siano forti davvero, o belli, o brillanti. Non ci piace per forza che vincano. Ci piace che combattano. Non invidiamo loro il successo: invidiamo loro il coraggio. Non ci deludono se perdono: ci deludono se mollano. Non è come si stagliano sulla vetta: è come scalano la montagna.

I libri sono un posto in cui il più “forte” non è per forza quello che vince.

Questo è molto importante perché, nelle scuole di scrittura, c’è un mega mostro che gli insegnanti ti agitano davanti agli occhi che è formato proprio da tutti i fraintendimenti in questo ambito, ed è il Temibile Spauracchio Mary Sue.

(Ha anche un corrispettivo maschile, che si chiama Gary Stu, ma Mary Sue è se possibile anche un filo peggio.)

“Mary Sue” era originariamente la protagonista di una fanfiction parodistica di Star Trek negli anni Settanta. “Il giovane tenente Mary Sue, la più giovane della Flotta, appena quindici anni e mezzo”. Quindi giovanissima ma anche brillantissima. E pure bellissima. Iperdotata. Geniale. Sempre risolutiva. Aggiungerei coraggiosa, se non fosse che il coraggio ce l’hai quando affronti nemici od ostacoli alla tua altezza, insomma hai coraggio solo se hai anche paura, ma Mary Sue è dotata di risorse così spropositatamente maggiori di tutti gli altri che non si vede perché debba veramente temere niente.

Odiosa.

Mary Sue è diventata l’emblema di quello che uno scrittore fa quando non vuole veramente scrivere una roba buona: vuole scrivere una roba consolante. Non che le due cose non possano coesistere, anzi, molto spesso lo fanno, ma Mary Sue è quello che ti viene fuori quando hai voglia di provare come si vive da vincenti, da belli, forti e brillanti, e non te ne frega davvero se poi la trama diventa irrilevante, se tutto sembra ruotare solo attorno a quanto la tua protagonista sia meravigliosa, se gli scontri sono impari e gli altri personaggi frittelle sgonfie al confronto e l’unica interazione che la tua protagonista ha con loro è sconfiggerli o farli innamorare. Tutto quello che ti preme è identificarti per quelle duecento pagine con un essere molto, molto migliore di te – e, peraltro, di qualsiasi altro umano al mondo.

Ed è proprio per questo che le Mary Sue sono protagoniste terribili: perché sono talmente perfette che è impossibile empatizzarci. Tu – autore della tua Mary Sue – ovviamente non te ne accorgerai: per te sarà bellissimo stare nei suoi panni (spesso succinti, perché lei può permetterselo), vivere le sue avventure (sempre vincenti) e le sue storie d’amore (sempre travolgenti), perché lei rappresenterà esattamente tutto quello che avrai sempre desiderato; ma io – lettore – perché diavolo dovrei trovarmi a tifare per una così inavvicinabilmente più forte di me?

La consolazione, tu dirai.

Il piacere di trovarti per un po’ dentro la testa e il corpo e la vita di qualcuno di superiore.

Sì, certo.

Per quindici minuti.

Per quindici minuti posso anche guardarmi, che so, un filmato su YouTube su Simone Biles che fa volteggi e salti avvitati come a me non sarebbe dato neanche se mi lanciassero con una fionda, e rimanere a bocca aperta e godere della sua infinita superiorità artistico-sportiva eccetera eccetera.

Dopo quindici minuti, però, inizio a sentire il bisogno di una trama.

E trama significa ostacoli, motivazione, mancanza e desiderio, aiuto, altri ostacoli, smarrimenti e ritrovamenti, e così via. Tutte vicissitudini che agli esseri perfetti non sono concesse – poveretti, pensa che noia.

Quindi: se vuoi scrivere una storia interessante, niente Mary Sue.

Questo è il punto in cui qualcuno chiede sempre: ma, ecco, fare un po’ e un po’? Posso concedermi il piacere di vivere per duecento pagine nel corpo e nella testa di qualcuno che sia meglio di me, ma non troppo meglio? Che abbia qualche difetto, qualcosa di umano, che me lo renda simpatico, vicino? Perché, in effetti, se un personaggio ha tutti i superpoteri, ma avere tutti i superpoteri significa privarsi di quell’ultimo definitivo superpotere che è essere simpatico, magari vale la pena di levargliene qualcuno pur di conquistarsi quell’ultimo là che, per un protagonista, non si può negare che sia abbastanza importante.

Eh eh. Certo che si può, ma questa è anche la parte in cui le cose si fanno particolarmente divertenti. Perché non è mica facile dare dei difetti alla propria Mary Sue. La tentazione di attribuirle mancanze che non sono veri problemi è sempre in agguato e genera risultati esilaranti.

Avete presente quando ai colloqui di lavoro vi chiedono “dimmi un tuo difetto” e tu ti trovi nella paradossale condizione di doverti vendere bene dovendo venderti male? (Ci passiamo tutti. Se non vi ricordate l’agghiacciante esperienza, o non l’avete ancora vissuta o l’avete vissuta troppo tempo fa: nel secondo caso vi invidio, nel primo non vi invidio per niente.)

Nove volte su dieci il candidato si produce in esternazioni patetiche del tipo “Eeeh” – faccia contrita – “purtroppo sono uno stakanovista: mi dicono tutti che lavoro troppo e non riesco a ritagliarmi tempo per me”. Sì, certo. Sai che difetto, per il tuo datore di lavoro. Oppure: “Non riesco mai a dire di no”. “Non sono mai puntuale: arrivo sempre in anticipo”. “Sono un perfezionista”. Ma smettila. È solo perché non puoi dire: “Dopo un po’ mi rompo terribilmente le palle del lavoro che sto facendo, di qualsiasi lavoro si tratti”, o: “Odio lavorare in squadra perché odio la gente”, o: “Arriva sempre un momento in cui mi devo lamentare di qualcosa”, e così via. (E comunque è una domanda crudele e inutile e nel Giorno del Giudizio tutti gli intervistatori che l’hanno posta si vedranno spedire all’inferno, sì.)

Allo stesso modo le Mary Sue a cui si installa l’Aggiornamento Difetti a volte rivelano dei bug esilaranti: “Si sentiva inadeguata a causa di quelle gambe lunghe che la facevano sembrare un fenicottero e svettare di una buona testa sopra la media delle sue compagne di scuola”. Ma per favore. “Quei giganteschi occhi di un grigio quasi alieno mettevano a disagio i suoi interlocutori, ma in primo luogo lei, che leggeva sui loro visi, ogni volta, un attimo di smarrimento nell’incrociarne lo sguardo.” Ma. Per. Favore.

Oppure, nel campo della personalità: “È senza filtri, dice sempre quello che pensa” (un blasone, altro che un difetto. Che poi io personalmente trovi che sia un difetto sul serio e che un sacco di persone se ne vantino senza che ve ne sia alcun motivo, è un altro discorso). “Troppo sognatrice”. “Ingenuamente, vedeva solo il buono nella gente”.

Al massimo, si arriva a una certa goffaggine nei gesti: come faceva notare un filmetto parodistico delle commedie romantiche che ho intercettato qualche tempo fa, una quantità allarmante di protagoniste femminili ha la tendenza a inciampare in gradini, farsi male con niente, perdersi per strada grazie a un senso dell’orientamento orrendo e in generale a mettersi nei guai. Sai che roba.

il grido della rosa

L’AUTRICE E IL LIBRO – Alice Basso è nata nel 1979 a Milano e ora vive in un ridente borgo medievale fuori Torino. Lavora per diverse case editrici. Con Garzanti ha pubblicato le avventure della ghostwriter Vani Sarca: L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome, Scrivere è un mestiere pericoloso, Non ditelo allo scrittore, La scrittrice del mistero e Un caso speciale per la ghostwriter.

Nel 2020 è uscito Il morso della vipera, il primo capitolo di una nuova serie ambientata nell’Italia degli anni Trenta.

Ora torna con Il grido della rosa, la seconda avventura della protagonista di questa nuova serie di romanzi. Veniamo alla trama del nuovo libro: manca poco all’uscita del nuovo numero della rivista di gialli Saturnalia. Anita è intenta a dattilografare con grande attenzione, il suo lavoro le piace ogni giorno di più. Non solo perché Sebastiano Satta Ascona, che le detta la traduzione dei racconti americani pieni di sparatorie e frasi ad effetto, è accanto a lei. Ma soprattutto perché questa volta le protagoniste sono donne detective, brave quanto i colleghi maschi. Ad Anita sembra un sogno. A lei che le restrizioni del regime fascista stanno strette. A lei che ha ritardato il suo matrimonio per lavorare. A lei che legge libri proibiti che parlano di indipendenza e libertà. A lei che sa che quello che accade tra le pagine non può accadere nella realtà.

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CREDIT FOTO: Yuma Martellanz

Nella realtà, se una donna aspetta un bambino fuori dal matrimonio, rischia che suo figlio venga adottato. E, se viene trovata morta davanti al cancello della villa dei genitori affidatari, si è trattato di un incidente. Quasi come se fosse andata a cercare una brutta fine. Questo accade a una ragazza di nome Gioia. Una ragazza che Anita non conosce. Ma non le importa. I suoi investigatori non attendono che ci sia qualcosa di personale per agire. Basta un indizio a far partire la loro intuizione. E così è per lei. Deve capire cosa sia successo veramente…

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Fonte: www.illibraio.it