Ma ve lo ricordate quando se un figlio decideva di voler fare l’alberghiero in casa si consumava una piccola tragedia? Sogni di grandezza infranti, speranze e proiezioni dei genitori sparse in terra. Quel figlio non sarebbe mai stato nessuno, al massimo un cuoco. O un cameriere. Non parlo di chissà quanti anni fa, io sono del ’77 e queste cose me le ricordo bene. Infatti i miei mi segnarono allo scientifico. Poi, finito lo scientifico, dovevo pagarmi l’università e il modo più semplice di farlo era infilarsi in una cucina di Trastevere. L’università è finita e io sono rimasto in cucina. Nel frattempo dev’essere successo qualcosa: a un certo punto ho alzato la testa dalla cernia che stavo sfilettando e la cucina – la mia cucina, il mio mondo – era diventata una sorta di religione. E i cuochi i suoi sacerdoti, direste voi se stessi zitto. Invece vi dico che no, i sacerdoti non sono per niente i cuochi, semmai lo sono i registi e i produttori televisivi. È che a parlare così tanto di cibo ci si allontana sempre di più da ciò che significa cucinare, o essere chef. Guardatevi in faccia, passate molto più tempo a guardare programmi sulla cucina che a cucinare. E credete che lo chef sia un artista illuminato che si sveglia nel cuore della notte colte da fervore creativo, un messia della buona novella perduta dell’arte culinaria. Sì, lo chef di solito è una persona con una discreta cultura del cibo, depositario delle conoscenze tecniche necessarie a lavorare la materia prima e dotato di buon gusto.
Il titolo di questo articolo è una domanda, quindi è ora di rispondere: ni. Saper cucinare aiuta, ma le qualità necessarie sono altre. Intendiamoci, gli chef – i grandi chef– si raccontano e indentificano con i loro piatti, il cibo che producono e l’ambiente in cui lo servono a voi che pagate per mangiarlo. È una cosa scontata ma vale la pena ripeterla: ogni ristorante è il suo chef. Detto questo, chi cucina nel ristorante non è (quasi) mai lo chef, ma semmai il sous-chef. E i capopartita. Lo chef è un imprenditore, un capobranco, un conoscitore dell’animo umano, un bravo matematico, uno psicologo, un maniscalco e un economista. Se mi sono trovato ad avere un ristorante in mano a 26 anni, dopo soli tre anni di attività e tre ristoranti in cui avevo lavorato, nell’ordine, come lavapiatti, comis e capopartita, è stato soprattutto perché avevo una certa attitudine a far fare agli altri quello di cui avevo bisogno. Ricordo benissimo una serata nel Nord Italia, mi occupavo dei primi in un ristorante che mirava a conquistare la stella Michelin, lo chef era anche proprietario e aveva tutta la mia stima: un vero professionista delle lievitazioni, un artista della fascinazione culinaria e un maestro delle tecniche di cucina e della pasticceria in particolare. Faceva quello che fa uno chef: curava i rapporti con i fornitori, scriveva i menù, controllava che i piatti fossero eseguiti come diceva lui, correggeva in continuazione il lavoro dei cuochi, dirigeva la cucina in modo che tutto fosse sempre esattamente dove doveva essere e che la sua brigata riuscisse a emergere anche dalle serate più complicate e convulse.
Ma la sera in cui il capopartita dei secondi è rimasto a casa con la febbre alta, lui ha dovuto fare quello che non faceva da un bel po’, mettersi ai fornelli. All’inizio non capivo l’aria preoccupata dei miei colleghi, avevamo lo chef ai fornelli, sarebbe filato tutto più liscio del solito. O no? No. Fu un disastro. Un totale, definitivo, irrecuperabile disastro. Lo chef sembrava muoversi in un mondo a parte, incapace di gestire la tempistica e gli automatismi necessari per affrontare un sabato sera qualsiasi di un ristorante da 200 coperti. Il suo, tra l’altro. In breve gettò tutta la brigata nella merda con i suoi ritardi e i suoi modi flemmatici, con un’irritante attenzione ai particolari incompatibile con la necessità del servizio: far uscire in fretta quei dannati piatti e farli uscire insieme a tutti gli altri.
Il nostro chef, ospite fisso della Clerici, amico di Cracco, vincitore di vari premi, se fosse stato al suo primo giorno di prova, quella sera, sarebbe stato preso a calci nel culo anche dal lavapiatti. Non è un’anomalia, la maggior parte degli chef che conosco è così. Anche io ormai sono così, in effetti è da parecchio che non affronto una serata ai fornelli. Quando sono stato assunto nel mio primo ristorante di livello, i proprietari mi dissero chiaramente che da me non si aspettavano che cucinassi, ma che facessi funzionare il loro ristorante. Ed effettivamente il mio lavoro è molto migliorato da quando mi sono allontanato dai fornelli. Se so ancora cucinare? Certo, certo che so farlo, molto meglio della maggior parte delle vostre nonne, ma ormai un sacco di persone sa farlo, suvvia. Saper gestire una cucina è tutto un altro affare, credo che sia questo il motivo per cui la maggior parte della gente che decide di usare la sua sana passione per il cibo per cambiare vita e fare fortuna aprendosi un ristorante, nella migliore delle ipotesi perde un sacco di soldi e rimane solo. Saper cucinare non c’entra nulla con la gestione aziendale. Bisogna essersi guadagnati la fiducia dei fornitori, sapere dove mettere le mani per ripulire i sifoni unti o far funzionare le celle frigorifere in attesa che arrivi il tecnico (non potete immaginare quanto spesso vadano in panne), avere dimestichezza con le attrezzature, riconoscere il momento di alzare la voce o di elargire un complimento, capire per tempo quando il comis e il lavapiatti hanno raggiunto la soglia di sopportazione reciproca e sapere come intervenire prima che si accoltellino. Insomma, quello dello chef è un lavoro duro, che richiede un lungo elenco di qualità difficili da insegnare e che hanno poco a che fare con il cibo.
L’AUTORE – Leonardo Lucarelli nasce nel 1977 a Dalhousie, in India. A quattro anni si trasferisce in Umbria, dove si diploma in Restauro e Conservazione dei Beni Culturali, e poi a Roma per laurearsi in Antropologia. Per sostenersi nel corso degli studi, intraprende una carriera di cuoco che lo porta in giro per tutta l’Italia, e nel 2006 ha il suo primo incarico da chef. Interrompe di tanto in tanto l’attività in cucina per compiere lunghi viaggi in moto, i cui reportage vengono pubblicati su varie riviste. In questo momento vive e lavora a L’Aquila. È in libreria il suo primo romanzo, Carne trita (Garzanti), in cui mostra il lato oscuro, contraddittorio e carnale delle cucine, un mondo parallelo in cui dominano amori e amicizia, droghe e sesso, culto del lavoro e soldi.
Fonte: www.illibraio.it