Sri Lanka: un viaggio letterario nei mille e più nomi dello splendore

di Stefano Risso | 12.07.2020

Anticamente conosciuto con il nome persiano di Serendib (da cui il neologismo serendipità, così come coniato dallo scrittore Horace Walpole, nel 1754, per indicare una scoperta tanto favolosa quanto inaspettata), storicamente noto con il famoso appellativo di Ceylon (nonché dominio inglese sino al 1972, quando passò dalla condizione di colonia britannica allo status di Repubblica Democratica Socialista, libera, indipendente e sovrana), accanto alla poetica dei suoi principali autori, tra i quali Martin Wickramasinghe, Michael Ondaatje, Rajiva Wijesinha e Ru Freeman è forse nella molteplicità degli epiteti a esso attribuiti che la narrazione dello Sri Lanka (o “Isola che risplende” questa la traduzione ufficiale derivante dall’accostamento dell’onorifico “sri” al termine sanscrito “lamka”) meglio evidenzia le numerose accezioni di un viaggio – quello letterario nella cosiddetta Culla del Dharma – per sua stessa natura esposto alle riflessioni spirituali dei sentieri dell’illuminazione.

In tal senso, ove nel vezzeggiativo di Perla d’Oriente (“Sì, ricordo Ceylon quando era il luogo più magico, più bello del mondo”, dice la giovane sposa Lakshmi, protagonista del romanzo Madre del riso di Rani Manicka nella traduzione di Anna Luisa Zazo, Mondadori), è racchiusa tutta la magnificenza del passaggio dello Sri Lanka – dalle vette del maestoso Sri Pada, l’altissima montagna che è servita da ambientazione per il romanzo Le fontane del Paradiso di Arthur C. Clarke (Mondadori, traduzione di Vittorio Curtoni), alle sconfinate coltivazioni di té nero nella regione di Jaffa, come descritte in Amori e foglie di tè di V. V. Ganeshananthan, (Garzanti, traduzione di Laura Prandino) fino alla paradisiaca Barriera di coralli del romanzo di formazione di Romesh Gunesekera (Feltrinelli, traduzione di V. Vergiani) – vi è nella formale qualificazione di Lacrima dell’India tanto un riferimento cartografico alla vicina costa indiana (a separarle un istmo di terra di appena 18 miglia nautiche, spesso sommerso dal mare) quanto la rappresentazione di un destino – troppo spesso impietoso – che, sin dalla sua fondazione, sembra aver duramente messo alla prova la crescita, geopolitica e spirituale, dell’intera comunità singalese.

Amori e foglie di tè

E non solo per la capacità di reazione che la nazione ha dovuto dimostrare di fronte ai violentissimi cataclismi che, da sempre, ne hanno flagellato i territori (tra i più recenti, lo tsunami che nel 2004 ha devastato l’Asia sud-orientale, personalmente raccontato da Sonali Deraniyagala in Onda, traduzione di Chiara Brovelli per Neri Pozza “All’inizio non ci badai. L’oceano sembrava soltanto un po’ più vicino al nostro albergo di quanto non fosse normalmente. Tutto qui”), o per la difficoltà socialmente diffusa del dover convivere con i nodi karmici delle discriminazioni di casta e dello sfruttamento minorile (ce lo racconta Andrea Rigante nel saggio La lacrima dei vedda. Sri Lanka, isola di un popolo dimenticato, ed. Alpine Studio) quanto, soprattutto, per l’intenso sforzo di resistenza cui la collettività tutta è stata chiamata durante il sanguinoso conflitto fra il governo singalese e la minoranza Tamil (e i cui prodromi risalgono alle vicende narrate nella Grande cronaca del Mahāvasa, poema epico del VI secolo D.C. che, nel collocare gli albori del Buddhismo nell’entroterra dell’isola, è divenuto oggetto di scontro con il gruppo etnico originario del nord-est dello Sri Lanka).

Senza, tuttavia, mai perdere il sorriso (e Isola del Sorriso è, per l’appunto, il più delicato dei suoi soprannomi); già, perché nonostante le numerose tribolazioni, e malgrado gli evidenti problemi di indigenza che a tutt’oggi affliggono gran parte della popolazione (spesso costringendoli a una consistente migrazione di forza lavoro), lo Sri Lanka rimane, pur sempre, un paese di filosofi: e chissà allora che la leggendaria Tapobrana – dove Tommaso Campanella scelse di collocare la sua utopica Città del Sole: “Questa è una gente ch’arrivò là dall’Indie, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di Mogori e d’altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere alla filosofica in commune” – altro non sia che essa stessa uno dei mille nomi del Gautama Buddha (colui che ha raggiunto l’illuminazione), fondatore del Buddhismo Theravada (la corrente religiosa maggiormente diffusa nella nazione; per approfondire La meditazione Theravada: la trasformazione buddhista dello yoga di Winston L. King, ed. Astrolabio Ubaldini), nonché modello spirituale per gran parte del popolo singalese che, nei suoi insegnamenti, sembra aver realizzato la ragione di tanto splendore.

Insomma, che si tratti di un Giardino dell’Eden dai profumi sopraffini (le spezie, sapientemente utilizzate sia nella gustosissima cucina a base di curry e cocco, sia nella straordinaria varietà di preparati fitoterapici per trattamenti ayurvedici) o di una paradisiaca Thaiti dell’Asia (nelle sconfinate spiagge che ogni anno accolgono milioni di turisti, fra i quali anche l’autrice di Una vita come tante Hanya Yanagihara – Sellerio, traduzione di Luca Brasco – che, nel reportage per Condé-Nast del 2012 attraverso il continente asiatico ha sorvolato, a bordo di un idrovolante, le costa a sud di Tangalle: “mi sentivo come Tintin, ma senza cane e impermeabile color albicocca”), lo Sri Lanka si conferma una terra dai richiami irresistibili, impossibile da definire nella sua perfezione, e talmente bella (“lassanai”, direbbero i singalesi) da lasciare senza parole. Se non quelle dei più bei romanzi che dello Sri Lanka raccontano e che, qui di seguito, vi consigliamo (giusto per viaggiare un po’, letterariamente parlando).

Lo spettro di Anil di Michael Ondaatje

Lo spettro di Anil di Michael Ondaatje

Silenziosi interpreti di lacerazioni collettive, rappresentanti pretermessi di una fattualità senza parola, sono quelli della guerra civile i fantasmi che Michael Ondaatje rievoca ne Lo spettro di Anil (traduzione di R. Duranti, Garzanti), ricostruendone i profili nelle tracce dell’omesso (l’anonimo scheletro “Sailor”, cui il medico legale Anil Tissera e l’archeologo locale Sarath Diyasena mirano, in corso d’opera, a restituire un volto). “Dalla metà degli anni Ottanta all’inizio degli anni Novanta” così, l’autore, in nota al testo: “lo Sri Lanka ha attraversato una crisi politica che ha interessato essenzialmente tre gruppi: il governo, i ribelli antigovernativi del sud e i guerriglieri separatisti del nord (…) Alla fine, per reazione, si venne a sapere che il governo aveva scatenato squadre speciali, sia legali che illegali, per dare la caccia a ribelli e separatisti”. Resoconto di denuncia di una manipolazione narrativa (la mancata identificazione, per ragioni esclusivamente politiche, delle tante e apartitiche vittime del conflitto armato), un romanzo illuminante per onorare, nelle pieghe della fiction, il ricordo di chi – vittima o carnefice – è stato privato, nel corso del conflitto, dapprima della vita e, infine, della Storia.

Il fiume nero di Paul Cooper

Il fiume nero di Paul Cooper

Come rivolo d’inchiostro (River of Ink, questo il titolo originale dell’opera) scorre la rivalsa del sagace letterato Asanka avverso l’invasione del tiranno Magha, venuto a minacciare – nel 1215 a.C. – la quiete del regno di Ponnarawa e dei suoi abitanti (fra i quali la bellissima Sarasi, serva di corte che Asanka ben presto introduce all’arte della scrittura e ai piaceri dell’amore). Costretto, infatti, a tradurre lo Shishupala Vadha (poema epico favorito dal Kalingha, nonché proposito di egemonia culturale ai danni del popolo di lettori) pur di vedersi salva la vita, Il fiume nero (Longanesi, traduzione di R. Cravero) del poeta di palazzo insinua nelle anse del testo parole di resistenza e sovversione, modificando il corso della Storia (del romanzo) con tutta la sagacia di una china appuntita. Paul Cooper – che dello Sri Lanka è profondo conoscitore, lì avendo lavorato come archivista, giornalista e libraio – figurativamente traccia un percorso strutturato e coerente delle dinamiche di dominazione dell’epoca (è la vicenda dell’usurpazione del Kalingha Magha episodio documentato fra i più sofferti della Lacrima d’India) – fra le righe alludendo al potenziale più dirompente della resistenza letteraria: quello di restituire collocazione alla verità, tanto più avverso le derive censorie e le mistificazioni di penna.

Il profumo delle foglie di tè di Dinah Jefferies

Il profumo delle foglie di tè di Dinah Jefferies

Attraverso il peregrinare del mappamondo letterario di Dinah Jefferies (nella Malesia di La Separazione o nella Birmania de La sorella perduta, nell’Indocina de La figlia del mercante di seta o nell’Italia del prossimo The Tuscan Contessa) è nei territori della Ceylon di inizio Novecento (così come per Il segreto del mercante di zaffiri) che fa tappa l’historical romance dell’autrice di Il profumo delle foglie di tè – traduzione di Elisa Tramontin e di Angela Ricci, Newton Compton – introducendo il lettore alle atmosfere (aromatiche e verdeggianti) delle immense piantagioni singalesi all’epoca del colonialismo inglese. “Un rotore sminuzza il tè, che poi viene setacciato per separare le particelle più grandi da quelle più piccole”; e nei vividi dettagli della narrazione –uno Sri Lanka fotografato en plein air, fra lussureggianti ambientazioni e pauperismi sociali – è qui che l’eroina Gwen Hooper (venuta sull’isola per seguire le coltivazioni del marito Lawrence) farà la conoscenza dell’intrigante Mr. Ravasinghe, con lui riscrivendo una storia di passione (e tradimenti) da sorseggiare in compagnia di una profumata tazza di tè (magari Nuwara Eliya o Ratnapura, fra i più apprezzati neri di Ceylon).

La letteratura Tamil a Napoli di Alessio Arena

La letteratura Tamil a Napoli

È un vivace melting pot di folklore e inventiva il crogiolo letterario che, dalle pendici del Vesuvio sino ai labirinti della Napoli sotterranea, fonde le vicende di Gennaro Bibberò (all’anagrafe Janaka Jayawardana, giovane emigrato tamil insediatosi nella città partenopea per sfuggire alla guerra civile in madrepatria) con le mirabolanti creazioni del collettivo di connazionali letterati, naturalizzati campani, altrimenti detto l’Accademia dei sotterranei – rocambolescamente intenzionati a far tremare la città (come da eruzione di vulcano) attraverso un’esplosione di cultura (a straordinaria memoria del massacro dell’etnia dravidica) benedetta da Ganesha e S. Gennaro –. Strutturato fantasista dalla sapida ironia ma delicato osservatore della comunità singalese a Napoli, nel suo romanzo d’esordio La Letteratura Tamil a Napoli (Neri Pozza) Alessio Arena conduce il lettore in un vorticoso viaggio andata/ritorno (quello tra distanze apparenti e comunanze periferiche), solo per ribadire, ancora una volta, quanto il dolore (così come la gioia), sappiano intrecciare, fra i cunicoli dell’anima, ogni diversità, anche la più estremizzata.

Il caso Hamilton di Michelle De Krester

Il caso Hamilton

Romanzo di riflessione sui rapporti fra asiatici ed europei, ma anche detective story dalle intriganti sfumature politiche, Il caso Hamilton di Michelle de Krester (traduzione di A. Arduini, Neri Pozza), ripercorre, nella figura del giovane avvocato Sam, l’articolata vicenda degli Obeysekere: dai fasti del nonno Stanley (mulaydir cui i coloni elargirono appezzamenti di terreno quale atto di gratitudine per il servizio prestato) agli sperperi dei genitori esageratamente naif (Maud, la madre, ha rifiutato la ricchezza per impetuoso spirito di libertà mentre Ritzy, suo marito, ha consumato l’ingente eredità depauperandola nelle corse ai cavalli), un racconto su come la presenza occidentale abbia, inesorabilmente, condizionato il modo di vita della popolazione singalese durante gli anni dell’occupazione britannica. E con riflessi i più disparati (e, nel nostro caso, avvincenti, tipo quelli che vedono Sam confrontarsi con l’omicidio del Sig. Hamilton, avvenuto nella piantagione del nonno mentre ospitava Mr. Gordon Taylor e sua moglie Yvette, in dolce attesa).

Una ragazza disobbediente di Ru Freeman

Una ragazza disobbediente di Ru Freeman

Nata in Sri Lanka e giornalista militante negli Stai Uniti, Ru Freeman è oggi una delle maggiori attiviste per i diritti umanitari e delle politiche sul lavoro nel panorama intellettuale singalese; forse per questo nei suoi romanzi l’autrice traspone non solo l’interesse per questioni sociali di estrema delicatezza e rilevanza (come quella femminile di Una ragazza disobbediente – traduzione di M. Bastanzetti, Piemme –, dove le protagoniste Lakshmi e Biso intraprendono un percorso volto alla liberazione di genere, avverso un tradizionalismo che, espressamente o per mezzo del senso di colpa, costringe le donne alla sottomissione, psicologica e carnale), ma anche l’intenso desiderio di raccontare, nei dettagli delle piccole cose, l’intimità di un popolo spesso rimasto in secondo piano nelle dinamiche della narrazione internazionale (si legga a tal proposito il suo Come petali nel vento, e le semplici storie di Sal Mal Lane e dei suoi intensissimi, abitanti): “E io sono grata, nonosante tutto, di avere avuto un anno nel quale ho potuto davvero essere una donna. Non una figlia, non una moglie, non una madre”.

Mosquito di Roma Tearne

Mosquito di Roma Tearne

C’è tutta la selvatichezza della giungla più feroce – come quelle della suggestiva Foresta pluviale di Sinharaja, ad esempio – nell’amore minacciato del vedovo Theo Samarajeeva (rientrato in Sri Lanka dopo la morte della moglie) per la giovane diciassettenne Nulani (pittrice di talento come d’altronde la stessa autrice) i quali, sullo sfondo di un’insurrezione terroristica (quella delle donne kamikaze Tamil paragonabili, quanto a aggressività e disperazione, alla implacabile ostinazione delle zanzare portatrici della malaria) affrescano di passione gli abissi storici della violenza estremista. Nata in Sri Lanka ma naturalizzata inglese, l’autrice è altresì pregiata artista visuale (sua la residenza presso l’Ashmolean Museum di Oxford dal 2002 al 2003); e forse è questo il motivo per cui Mosquito (traduzione R. Duranti, E/O) riesce a dettagliare con, estrema maestria, le complesse sfumature del territorio singalese, trasmettendo al lettore tutta l’intensità non solo dei suoi colori, ma anche delle sue intestine contraddizioni.

Il talento del cuoco di Martin Suter

Il talento del cuoco di Martin Suter

Sembra un omaggio alle cucine di mezza Europa la narrazione che, nel suo Il talento del cuoco (traduzione di Emanuela Cervini, Sellerio) Martin Suter fa del tamil Maravan, talento della gastronomia partito dallo Sri Lanka per ricevere asilo politico presso i ristoranti di lusso di Zurigo. Sì, perché come i tanti connazionali emigrati in occidente alla ricerca di lavoro, vi è nel giovane Taravan non solo la sapienza di un’arte millenaria (quella della tradizione singalese, centro di raccordo di sapori, e profumi, dagli accenti inconfondibili) ma, soprattutto, quell’amabile curiosità che sa rendere sempre costruttive anche le più umili esperienze. Ecco allora il piatto di punta del cuoco Taravan (un curry speciale, dalle sensazioni afrodisiache) divenire, su supervisione della cameriera Andrea, innovativo programma di food marketing: un Love Menu di ricette piccanti (che Maravan non potrebbe preparare, a dettame della sua religione) in grado di risollevare, negli animi degli avventori, l’appetito passionale della vita. In un mix di ingredienti dal sapore letterario, un elegante raccordo di cibo e personalità in grado di solleticare, nei lettori più raffinati, anche i palati più sopraffini e educati.

Fonte: www.illibraio.it