VIRUS
Omaggio a Carlo Dossi
Piccoli, piccoli, invisibili, microscopici.
Chissà, pensava, che voce avevano i virus. Meno di un bisbiglio, meno ancora di un sussurro. Sufficiente per sentirsi però, per dirsi : “Dai, forza, andiamo avanti, facciamolo ammalare”.
Nel giorno di san Valentino.
Tra le tante cose di cui aveva dovuto tener conto per preparare alla perfezione la serata, dei virus proprio s’era dimenticato.
D’altronde, come evitarli?
Seguendo i consigli della tivù o dei giornali?
Vaccinandosi magari.
Ma non l’aveva mai fatto.
E ormai era tardi.
Aveva cominciato a sentirli, a immaginarli piuttosto, verso la metà del pomeriggio, in ufficio.
Una prima bolla, come se avesse il distributore dell’acqua nella pancia, l’aveva fatto sussultare.
Stomaco troppo vuoto?, aveva pensato.
Aveva mangiato come al solito, panino e birretta.
Forse la birretta, troppo fredda?
Gli aveva risposto una serie di scoppiettii viscerali, piccole castagnole che non erano sfuggite al dirimpettaio suo collega.
«Cosa c’è»?, aveva chiesto notandone lo sguardo.
E quello s’era zittito, aveva ricominciato a passare carte.
Poi il telefono era squillato. Era il catering per la conferma dell’orario di consegna e dell’ordinazione.
Alle diciannove e trenta, confermato. Aveva confermato anche lo speciale menù ideato dallo chef per la sera di san Valentino.
«Per due, certo», aveva detto non senza meraviglia.
Che domanda era?
C’era forse qualcuno che ordinava la cena per la sera di san Valentino per una sola persona?
Non certo lui, che dopo sei mesi di corte serrata, di film, musei, passeggiate, teatri e anche una visita a un reparto oncologico era finalmente riuscito a ottenere una cena con lei, a casa sua, con una prospettiva di annessi e connessi.
Deposta la cornetta gli era venuto un brivido.
Lei era bella. Glielo avrebbe detto quella sera. Le avrebbe confessato di essersi perdutamente innamorato. Da quella sera, lo sentiva, avrebbe avuto una fidanzata.
Poteva rispondergli no, dopo che per sei mesi aveva accettato tutti i suoi inviti, compreso quello della cena, a casa sua, per san Valentino?
Al solo pensiero gli era venuto un po’ di sudore accompagnato da un senso di costrizione all’addome.
Che ci fossero di mezzo, però, anche i virus?
Quelle piccole carogne schifose.
Gli stava forse salendo un po’ di febbre?
«Mi sembri un po’ pallido», gli aveva detto il suo dirimpettaio.
Niente di meglio per farlo sudare ancora di più.
La tensione, aveva pensato lui.
Meglio però darsi una sciacquata alla faccia.
Si era alzato, si era avviato alla volta del bagno, e una volta lì dentro…
Immaginò i loro piccolissimi occhi trasmettere all’altrettanto piccolo cervello l’informazione: erano nel luogo comodo.
Scatenare l’attacco lì?
No, temporeggiare.
Era stato un falso allarme.
Non appena chiusa la porta, la suggestione dell’ambiente l’aveva illuso.
Si era accomodato, ma non era successo niente. Niente che fosse valsa la pena ricordare.
Era tornato alla scrivania.
«Come va?», gli aveva chiesto il collega.
Si facesse i cazzi suoi!
«Bene», aveva risposto.
Mica vero.
Era stato bene nel breve tragitto dal cesso fino alla scrivania. Una volta seduto, forse la posizione, aveva sentito montare un gonfiore che l’aveva costretto a slacciare la cintura del pantaloni con movimenti segreti così che il rompiballe di fronte non vedesse.
Aveva dato uno sguardo all’orologio.
Ancora mezz’ora di ufficio, poi libertà.
Una mezz’ora di dolce far niente come al solito, lo sguardo fisso alle lancette dell’orologio, due chiacchiere col socio di fronte sui programmi della serata.
Lui il programma ce l’aveva bello e pronto.
«Cosa fai stasera»?, gli aveva chiesto quello.
«Vado a letto», aveva risposto.
Poi era scattato l’orario, ognuno per sé.
Fumare.
Lei non fumava.
Eppure adesso, quando mancavano dieci minuti alle otto, dieci minuti al suo arrivo, una bella sigaretta ci sarebbe stata bene.
Così, per smorzare la tensione.
Poteva andare sul terrazzino.
Ma, freddo a parte…
Freddo a parte gli sarebbe rimasto addosso l’odore del fumo.
Così rivoltante, l’aveva definito lei una volta.
Rinunciò a fumare.
Però fece un patto col destino.
In cambio del sacrificio la serata sarebbe dovuta finire com’era nei suoi desideri.
Il letto, peraltro pronto, lenzuola pulite, cambiate quella stessa mattina prima di andare in ufficio, poteva anche aspettare. L’importante era che lei accettasse la proposta di fidanzarsi con lui.
A fumare ci avrebbe pensato dopo.
Dopo cena.
Dopo.
Una volta rimasto solo…
Perché, per quanto tutto potesse andare bene, più che bene, ottimamente, gli sembrava difficile che lei accettasse di stare lì sino al mattino.
Nemmeno gli sarebbe piaciuto.
Già si vedeva, dopo, solo in casa, la tavola ancora da sparecchiare, il letto disfatto, steso lungo quant’era sul divano, una bella sigaretta fumante tra le dita, a ripensare a quello che era successo.
Momenti da fissare nella memoria per non dimenticarli più.
E poi in ufficio.
La soddisfazione di dire al suo collega che aveva fatto centro, concluso, che lei ( non avrebbe fatto nomi), lei gli aveva detto…
Si bloccò al pensiero.
E se invece…
Possibile che…
Guardò l’orologio, tre minuti alle otto.
Era la tensione, lo stress dell’attesa, l’ansia di quei sei mesi passati a gettare ami con la speranza che prima o poi lei abboccasse.
Come poco prima di fare un esame, a scuola o del sangue.
Il dubbio si insinuava tra i pensieri senza che fosse invitato.
La possibilità che venisse interrogato proprio su quel capitolo che aveva saltato a piè pari, quei consigli del medico sull’alimentazione che non aveva mai rispettato…
La possibilità che lei gli dicesse no.
Un minuto alle otto.
Diede un’occhiata alla sala perfettamente in ordine, alle luci soffuse, alla tavola apparecchiata, annusò il profumo di fiori nell’aria.
L’attacco partì in quell’istante.
Massiccio.
La fanteria virale davanti, a riempirgli la pancia di fitte provocate da immaginarie baionette. A seguire l’artiglieria pesante, un terremoto.
Guardò l’orologio, le otto, chiuse gli occhi.
Attese.
Ascoltò.
Dal citofono, silenzio.
Dalla pancia, pure.
Forse…
Anzi, no.
L’offensiva dei virus partì all’improvviso dopo quella breve pausa. L’impressione che ne ebbe, una visione tanto rapida quanto lucida, fu quella dei maledetti serpentelli, li vide come se stessero soffiando con una cannuccia dentro un enorme catino pieno d’acqua. Il rumore era quello di decine e decine di bolle che scoppiettavano effimere, sostituite da altre.
Ma non poté indugiare oltre.
Volò.
Cioè, si fa per dire.
Il suo pensiero volò.
Lui impiegò un po’ di più a realizzare nella realtà la mossa che il cervello aveva prefigurato.
Brevi, cauti passi onde evitare disastri.
Infine l’infuriare della battaglia sul cui campo, come a sancirne la conclusione, si stesero le note di una tromba.
Si penserà a una metafora.
Ebbene, sì.
Tutt’altro invece fu il trillo del campanello.
Quale guerriero sfinito dall’agone, si guardò intorno, tese l’orecchio. Sino a quel momento dimentico di ogni altro dovere tranne quello di contenere l’attacco del nemico, tornò infine in sé, repentinamente.
«Madonna santa!», mormorò.
Madonnasanta era lei e per un minuto, forse due, se n’era completamente dimenticato.
Volò, adesso sì, libero e leggero alla porta, fermandosi un solo istante per calmare il respiro.
Poi aprì su di lei, destino e futuro.
Come per una segreta intesa, entrambi saltarono la banalità dei saluti.
Lei disse:
«Non ne posso più !»
Dolcezza, fu il suo pensiero, anch’io lo potrei dire.
Di stringerti tra le braccia, amarti, coccolarti, fare di te la vita.
«Di fare la pipì», aggiunse lei.
Col freddo che faceva…
E poi era tutto il pomeriggio che…
«Ma certo, certo», lui disse.
Ma certo, come no, e invece, d’improvviso…
«Oddio!»
«Cos’è successo?», chiese lei.
E saltellava ormai dentro la sua casa.
«Ti prego, per favore…».
Lui si contrasse, il viso una sola ruga.
Quei maledetti virus, quella battaglia scatenata pochi minuti prima, quegli esiti che ancora, sicuramente permanevano…
«Ma insomma… », disse lei che non capiva.
«Ecco», le rispose, «purtroppo il mio bagno è fuori uso.»
Sifone, disse, tubo che perde, aggiunse, l’idraulico sai com’è, quando hai bisogno, e quasi si commosse.
«E allora come faccio?», a sua volta lei, la voce stridula.
E’ tutto il pomeriggio che…
«D’accordo», fece lui illuminato.
Miracolosamente il profumo della sala, delle candele, dei fiori discretamente disposti riprese possesso delle sue narici spodestando l’altro.
«La mia vicina», disse.
Mai vista, si sa come vanno le cose in certi condomini.
Ma si trattava di una specie di emergenza, le avrebbe chiesto una piccola ospitalità.
Si vergognava un poco, gli disse lei. Oltre, però, sentiva che non sarebbe riuscita a resistere.
«Aspetta», disse lui. «Vado.»
«Sbrigati per favore.»
Nel breve spazio tra una porta e l’altra preparò il discorso.
Le sembrerà strano… la prego di scusarmi… voglia capire e non si metta a ridere… il mio sifone… l’acqua che non scorre… l’idraulico, sa un po’ com’è quando se ne ha bisogno… purtroppo una mia amica… so che è san Valentino…
Suonò poggiando appena l’indice sul campanello.
In viso sentiva di avere l’espressione più dolente che fosse nelle sua capacità.
La porta si aprì con lentezza.
Come un sipario.
O come due nuvole che fanno strada a un raggio di sole.
Lui, la bocca aperta, restò a rimirare la vicina.
Lei stava per chiedere: «Chi è?», la chiuse invece.
Parlarono con gli occhi mentre di là, nelle altre stanze si apriva finalmente un’altra porta.
«Oddio, cos’è?», si chiese lei ( già, senza saperlo diventata l’altra, un’altra, una qualunque ), annusando.
Più dell’odor però poté il bisogno.
E solo poi, fuggendo da quel luogo maleolente, in mezzo alla sala vuota perfettamente apparecchiata per la sera, le venne da chiedersi perché.
Perché mentire sul sifone, visto che andava più che bene?
Perché la storia del bagno fuori uso?
E dov’era lui adesso, perché non ritornava?
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Fonte: www.illibraio.it