Vuoi diventare un uomo libero?

di Antonio Sanfrancesco | 08.11.2016

L’ultimo saggio di Vito Mancuso, Il coraggio di essere liberi (Garzanti) inizia (e finisce) con un prologo teatrale perché il teatro, con il suo linguaggio, è metafora potente della posizione dell’uomo nei confronti dello spettacolo della vita: non spettatore ma attore a tutti gli effetti. Se si è attori, non si è padroni e il copione è tutto da scrivere anche quando crediamo di conoscerlo a memoria e lo recitiamo (o meglio, siamo costretti a farlo) tutti i giorni indossando varie maschere. Così è per quella materia intricatissima che Mancuso si propone di esplorare in questo saggio: la libertà. Si crede di dominarla, anche solo a livello intellettuale, ma è un po’ “come tenere un’anguilla in mano: più stringi la mano e più scivola via”, come diceva san Girolamo del libro di Giobbe.

Mancuso pone la questione così: “La domanda più importante qui non è: “Esiste la libertà?”, quanto piuttosto: “Tu ti ritieni libero? E se non ti ritieni tale, lo vuoi diventare? Hai, o vuoi avere, il coraggio di essere libero?”.

Il tenore del saggio è profondamente esistenzialista e lo ritroviamo in tutta la sua drammaticità alla fine del libro quando Mancuso tira le fila della sua perlustrazione che tocca il pensiero greco, il determinismo di Einstein, la concezione cristiana e la grazia. Quale libertà dunque?, si chiede l’autore. “Se ci affidiamo a noi stessi, precipitiamo nella schiavitù del corpo, della psiche e delle idee; se al contrario ci affidiamo alla tradizione e all’autorità altrui, precipitiamo in un’altra schiavitù, forse peggiore. C’è qualche via di uscita per dare un contenuto legittimo al concetto di libertà o ci troviamo in presenza di un’illusione, e nessuno che sia davvero consapevole della sua condizione può ritenersi veramente libero?”.

Qui sta il dramma. La Provvidenza divina, l’obbedienza a un’autorità, il potere non sono per Mancuso risposte sufficienti alla questione se siamo liberi o meno. Forniscono forse una soddisfazione nell’immediato ma non reggono nel tempo. L’obbedienza, in particolare, deve depurarsi dal suo diabolico fondamento – il potere – per inchinarsi soltanto alla “legge della libertà”, all’autonomia della coscienza.

“Si può infatti onestamente pensare”, nota l’autore, “che dietro gli eventi che riguardano la nostra vita vi sia un esplicito volere di Dio solo a condizione di non escludere tale volere divino anche quando si tratta di catastrofi, sciagure, incidenti, malattie mortali. Non è onesto infatti parlare di provvidenza quando si tratta di eventi positivi, e di libertà quando si tratta di eventi negativi. La provvidenza, il governo divino, la missione, la vocazione o ci sono sempre o non ci sono mai. Lo stesso vale per la libertà della natura e degli esseri umani: o c’è sempre o non c’è mai. Non è coerente sostenere il governo divino e poi parlare di libertà della natura e degli esseri umani quando i conti non tornano. O governo divino o libertà”.

La strada è stretta anche perché Mancuso rifiuta la dogmatica tradizionale basata su obbedienza e sottomissione ma non cade nel tranello del mainstream che riconosce la libertà assoluta solo e soltanto nel proprio desiderio. “Io penso”, scrive l’autore, “che la domanda sul senso del nostro essere qui possa trovare risposta solo se prima si risponde a quest’altra: da chi andare per avere una risposta? Se non è l’autorità religiosa, se non è la cultura dominante, se non è l’ego con la sua volontà di affermazione, da chi andare per ottenere la risposta alla domanda sul senso del nostro essere qui?”.

Già, da chi andare? La risposta di Mancuso è quella di rivolgerci al nostro corpo, alla nostra fisicità perché il corpo, scrive, “è un concerto di relazioni”, tra le particelle e gli atomi che armoniosamente generano le cellule, i tessuti, gli organi e via via tutto il resto. “Se la nostra energia costitutiva”, spiega Mancuso, “non fosse informata da tale logica che porta a relazioni sempre più complesse e articolate, non ci sarebbe la vita, né la mente che si chiede perché c’è la vita, né ci sarebbe la libertà di scegliere tra le diverse risposte elaborate dalla mente”. Sipario, è la parola con cui si conclude questo saggio. Ma sulla questione della libertà pronunciare questa parola è impossibile.

 

Fonte: www.illibraio.it