Belpasso, Sicilia, metà Ottocento. Gnu Ranna: questo è il nome che le hanno affibbiato, insieme a quello di strega, fattucchiera, speziale. Ma, prima di scagliare una maledizione su un’intera stirpe – la famiglia Baruneddu, condannata a una vita di sfortunati amori –, Gnu Ranna aveva un altro nome. Si chiamava Veneranda Balsamo, ed era solo una ragazzina affidata dal padre alle cure di una mavara che le ha insegnato come trovare le erbe giuste per curare le malattie, riconoscere i boccioli dei fiori alla luce chiara dell’alba e vivere dei frutti della terra. Giorno dopo giorno, anche Veneranda è diventata una mavara di talento, a cui tutti gli abitanti di Belpasso si sono rivolti con fiducia. In particolare le donne che si recavano nel retro del negozio del padre a chiederle aiuto per i loro bambini o per un dolore troppo tenace. Lì erano al sicuro. Ma nessuna donna, a Belpasso, lo è mai del tutto. Nessun uomo sa rispettare un «no» mormorato con paura. Per questo, quando la figlia scappa con un Baruneddu, Veneranda decide di diventare una strega. Tutto pur di proteggerla e tenerla vicino. Perché lei, dalla madre, dalla nonna e da quelle prima di loro, ha ereditato una macchia. Una macchia che ha segnato il suo destino. Una macchia impressa dai masculi. Una macchia che, come inchiostro, si allarga di generazione in generazione.
Il vento dell’Etna ha conquistato pubblico e critica raccontando la storia di una famiglia alle prese con una maledizione. Ripartendo dalla stessa affascinante ambientazione, Anna Chisari esplora l’origine di quell’anatema. Dimostra che siamo discendenti di chi ci ha preceduto, ma che è anche possibile rompere le catene che ci rendono schiavi.
