Quando ho creato il personaggio di Vani Sarca, la ghostwriter iperempatica che riesce a infilarsi nella testa di tutti gli scrittori di cui deve imitare lo stile, e che proprio grazie a questa capacità d’immedesimazione diventa aiutante della polizia, sapevo che mi avrebbero fatto tutti un sacco di domande sull’empatia. Il bello è che manco io ne so granché, sull’empatia. L’empatia è un tema divenuto di moda, ma che in verità è molto serio, roba da neuroscienziati o da meditanti buddhisti. Una cosa però la so: che quello che si crede di saperne, molto spesso, è discutibile. Sono andata in rete a cercare le più frequenti leggende metropolitane sull’empatia, ed ecco qualche perla che non so se aiuti la nostra comprensione del fenomeno, ma probabilmente aiuterà il nostro buonumore, che mi sembra già un buon risultato.
Empatia è quella cosa per cui, se vedi uno che sbadiglia, sbadigli anche tu. Pare che uno che non sbadiglia se gli si sbadiglia davanti denoti non una quantità adeguata di ore di sonno alle spalle, bensì una anormale carenza di empatia, e potrebbe addirittura celare un profilo psicologico da serial killer. Immagino che, di conseguenza, un serial killer, per avere una copertura a prova di bomba, faccia bene a dormire sempre troppo poco, in modo da sbadigliare in continuazione sua sponte e risolvere il problema così.
L’empatia è una dote prettamente femminile. Perché, si sa, la donna è più incline all’ascolto, al conforto, all’emotività, alla cura. Ecco, io penso che un essere umano, di qualsiasi sesso, si educhi all’attenzione e all’ascolto, perché sono attività impegnative; penso che considerarle spontanee e prive di sforzo sia offensivo verso una donna tanto quanto dire a un bravo cantante “che bella voce” senza riconoscergli le ore passate a farsi il mazzo sugli esercizi di tecnica; e penso che dare per scontato che una donna sia disposta per natura a sorbirsi per ore i problemi del tuo preziosissimo ego faccia di te un uomo orribile (e di lei una disperata che dovrebbe farsi una vita).
Stabilire una sintonia empatica con il tizio che ti sta facendo un colloquio di lavoro ti può garantire il posto meglio di qualsiasi qualifica in curriculum. Forse, ma forse anche no. Perché, se stabilite una corrente empatica con Fernando delle Risorse Umane, ma poi andate a lavorare tutti i giorni sotto Enza dell’Ufficio Sinistri senza avere le qualifiche adeguate, il posto lo perdete anche con altrettanta rapidità. E Fernando, se sa fare bene il suo mestiere, ne è già ben consapevole a monte, e non si fa fregare.
L’empatia si può suscitare a comando tramite azioni mirate, ad esempio imitando la postura o il tono di voce dell’interlocutore. Anche questa ha un suo fondo di verità (di certo entro più facilmente in sintonia con uno che risponde alle mie pacate domande con risposte altrettanto pacate che non con un tizio che scatta in piedi e si mette a sbraitare come un hooligan), ma il confine è veramente sottile. Pensate di accorgervi che il tizio che avete davanti sta piegandosi sulla sedia come voi, ripetendo i vocaboli che avete usato voi, replicando la vostra cadenza. Non so a voi: a me suona come la cosa più inquietante del mondo. Inoltre, vi viene immediatamente da chiedervi se questo pagliaccio ce l’abbia, una sua personalità, e finisce per essere controproducente.
“Empatico” è sinonimo di “buono”. Col cavolo. È una distorsione entrata nell’uso comune (esempio tipico: “Quel dottore è tanto empatico: finalmente uno che non mi tratta come un numero!”) ma non ha senso nemmeno etimologicamente. Una delle mie cape (io ho un sacco di capi, e questa è quella in assoluto più esperta in fatto di empatia e in generale di neuroscienze e psicologia) una volta mi fece un esempio molto sagace, che io ripeto spesso perché mi fa sembrare un sacco brillante: anche il torturatore è empatico. Perché deve sapere bene a che livello di sofferenza è arrivata la vittima, per fermarsi prima di ucciderla. Quindi, la prossima volta che avete bisogno di un dentista e chiedete al vostro amico Ugo com’è il suo, e lui ci pensa un attimo e poi vi risponde “Empatico”, sappiate che non significa necessariamente che vi troverete di fronte al medico dei sogni, comprensivo e aperto alle vostre esigenze: magari Ugo voleva solo rassicurarvi senza mentirvi, e il dottore, mentre gli mugolerete fra le lacrime “Fa male!”, vi risponderà “Lo so”, in effetti sapendolo davvero… ma andando anche avanti imperterrito.
D’altro canto, nemmeno Vani è buona. È empatica, certo: riesce a pensare come gli autori per i quali deve scrivere, a esprimersi come loro, a mutuare le loro idee, ma non per questo prova affetto nei loro confronti, o si sente indotta a trattarli bene. E descrivere questa duplicità è forse la cosa più divertente che Vani mi faccia fare.
L’AUTRICE E IL LIBRO – Alice Basso lavora per diverse case editrici, come traduttrice e redattrice, valuta le proposte editoriali e, nel tempo libero, canta e scrive canzoni per alcune band rock; non sa cucinare, ma ama disegnare e, tra le altre cose, scrive libri. Dopo L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome e Scrivere è un mestiere pericoloso, l’autrice torna in libreria, sempre per Garzanti, con Non ditelo allo scrittore, la storia di Vani, dotata di un’empatia innata, ma insofferente nei confronti delle persone, tutte le persone. Il suo dono tuttavia le è utile, perché Vani è una ghostwriter: scrive a nome di altri autori, che pubblicano libri scritti da lei, un lavoro che deve tenere segreto e che si fa ancora più complicato quando le viene affidato il compito di scovare un altro ghostwriter che si cela dietro uno dei più importanti romanzieri italiani. Nel frattempo un altro scrittore, Riccardo, che le aveva spezzato il cuore, torna nella sua vita, mentre il commissario Berganza vuole il suo aiuto per condurre un’indagine e, magari, un’occasione per dichiararsi.
Fonte: www.illibraio.it