Eredità di affetti: il racconto di Hans Tuzzi per “Andrà tutto bene”

di Hans Tuzzi | 27.04.2020

Eredità di affetti

L’uomo teme i nemici invisibili, e chi è più invisibile di un virus? Quale dio saetta il morbo che reca la morte nel grembo delle madri, si chiede il corifeo in apertura dell’Edipo re. Per questo, forse, nella peste la letteratura trova fertile terreno di meditazione, da Tucidide a Manzoni, da Defoe a Camus, da Lucrezio a Saramago.

Oggi, per la prima volta in Italia, le generazioni che non hanno conosciuto né la guerra (e che guerra: di odio e sterminio) né la fame si trovano a dover fronteggiare una situazione che richiede cautele, e, con le cautele, piccoli (sì, piccoli) sacrifici. Se devo cercare un precedente, devo, anche, chiedere scusa ai morti e ai loro cari, perché si tratta di un precedente grottesco: devo infatti risalire al 1973, quando il ritiro di greggio da parte dell’Arabia Saudita durante la guerra del Kippur portò alla crisi energetica, e in Occidente al divieto dell’uso delle auto nei giorni festivi, e i media sciolsero peana esagerati e ridicoli allo spirito di sacrificio degli italiani, neanche si fosse sotto bombardamento nemico.

Ora, invece, i morti ci sono. E non importa quanti. Sono nomi, sono affetti, non sono numeri.

Personalmente (posto che oggi la mia persona possa interessare qualcuno, e ne dubito) mi considero un privilegiato: sono nato in Europa occidentale nel più lungo periodo di pace della sua trimillenaria storia; grazie ai progressi della scienza medica sono vivo, mentre se solo fossi nato un secolo fa sarei morto a cinquant’anni e invece vado per i sessantotto; non sono povero e vivo a Milano in una casa sufficientemente ampia da non farmi soffrire per questi domiciliari coatti. Ho persino un vasto giardino condominiale dove in certe ore posso passeggiare in beata solitudine e splendido isolamento.

Ma conosco persone che hanno perso parenti, e altre che, presumibilmente, li perderanno a breve.

E ciò che più mi colpisce, in questi giorni, è la necessaria interruzione dei riti funebri.

Su quale momento chiude l’Iliade? Su un funerale – Questi furo gli estremi onor renduti al domatore di cavalli Ettorre – visto come istante di civiltà nella furia omicida della guerra, che è, sempre, inciviltà. Quali che siano i riti, l’addio alla salma è fondativo della civiltà. Di ogni civiltà. E il genio di Alessandro Manzoni, quel nevrotico bastardo, lo coglie benissimo nel porre a suggello dell’orrore della peste il brano che un tempo, nelle scuole precedenti la riforma Bosco, si mandava a mente, si imparava a memoria: «Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna…». Sì, la madre di Cecilia. Come lei, oggi, i parenti vedono i loro cari partire su ambulanze dalle quali forse non torneranno, per ospedali dove non si potrà far loro visita. Partono per scomparire. Nel nulla della morte. Nel cuore della tenebra.

Così mi son chiesto: ma la pittura, come ha rappresentato il rito dell’addio?

E per rispondere mi sono rivolto al meno spirituale, al più materialista e ateo dei pittori moderni.

Il 31 dicembre 1877 Gustave Courbet, nato a Ornans nel 1819, moriva consumato dall’alcol nell’esilio svizzero seguito ai giorni della Comune: socialista convinto, l’artista era considerato il campione del Realismo in pittura. E non soltanto in pittura. Il rifiuto di soggetti e di soluzioni formali consolidate fu per lui anche rifiuto delle istituzioni, dalla scelta di esporre da solo, a parte, i propri quadri al Salon dell’Esposizione Universale di Parigi del 1855 alla partecipazione alla Comune. Fu per avere voluto nella Parigi assediata l’abbattimento della colonna eretta da Napoleone in place Vendôme che venne clamorosamente processato; dopo la condanna, lasciò la Francia.

Dire Courbet è dire Realismo. Egli stesso affermò: «La pittura è un’arte essenzialmente concreta e può consistere solo nella rappresentazione delle cose reali ed esistenti. Un oggetto astratto, non visibile, non rientra nel campo della pittura. L’immaginazione nell’arte consiste nel saper trovare l’espressione più completa di una cosa esistente, mai però nel supporre o creare questa stessa cosa». Fa effetto, se si pensa che altri in quegli stessi anni videro nella fotografia la libertà di «tornare a dipingere». Ed è curioso come Courbet (ma anche il suo contemporaneo James Tissot, dalla simile vicenda artistica e umana) fosse politico visionario e pittore realista: un realismo socialista ante litteram? Ma già l’Autoritratto o Uomo disperato, del 1843, dichiara che vi sono «cose reali e esistenti» al limite del visibile. Non potrebbe essere, quello, il volto del protagonista di Le Horla di Guy de Maupassant quando non si vede riflesso nello specchio? Le Horla, altro capolavoro che parla di un nemico invisibile (e, come tutti i nemici, «altro»: forse che non lo ha portato in Francia una nave brasiliana?). L’arte è metafora, non è letterale, e questo il realista Courbet lo sa bene.

Lo dimostra il suo Funerale a Ornans, che, presentato al Salon del 1850, scatenò prevedibili critiche e proteste. La borghesia, sottilmente messa a nudo e vilipesa impunemente da Ingres, vent’anni prima, in quel conturbante idolo del capitale che è Monsieur Bertin, non tollerò la povertà dell’insieme, il realismo dei volti e il formato stesso, riservato dai pittori accademici alle composizioni storiche. Anche la critica ufficiale si dimostrò, su questo punto, curiosamente miope.

Alta 3,15 metri, la tela si sviluppa in orizzontale per quasi sette metri: una scelta polemica non tanto verso la Storia, bensì verso il più noto funerale della storia dell’arte, dipinto da El Greco per la chiesa di Santo Tomé a Toledo. La Sepoltura del conte di Orgaz si sviluppa in verticale per quasi cinque metri su una base poco più ampia di tre metri e mezzo, ed è nettamente divisa in due parti: nella superiore El Greco dispiega tutte le glorie del Paradiso, mentre in basso, fra luci artificiali e figure che tutto sono men che realistiche, sant’Agostino e santo Stefano, apparsi per miracolo, depongono nella fossa, reggendolo fra le braccia, il cadavere la cui postura ricorda quella del Cristo nelle Deposizioni dalla Croce.

Nulla di più estraneo a Courbet. Che tuttavia, proprio come El Greco, opera una personalissima sublimazione del quotidiano. Se nel seppellimento toledano possiamo riconoscere diversi personaggi (il più importante è re Filippo ii, che, ancora in vita, si affaccia dal cielo già assunto fra i beati in terra viventium), anche nel raccolto, terragno funerale borgognone possiamo individuare persone vicine al pittore. Perché i morti, e tutti lo sappiamo nella nostra carne, non sono numeri: sono nomi, sono affetti, e vivono nella nostra memoria.

Senza orizzonti, senza paesaggio, il quadro, benché ambientato in una campagna senza chiesa, sembra del resto suggerire il raccoglimento di una comunità. Sotto le pallide, scoscese gole del fiume Loue, sono i volti dei convenuti a tagliare la tela a due terzi dell’altezza, secondo uno sperimentato canone della romanità, in un susseguirsi di facce divise per sessi, come in chiesa: i cappelli neri degli uomini a sinistra e le cuffie bianche delle donne a destra dello spettatore. Fra esse, dietro al cane, ecco, dolenti, la madre e le sorelle dell’artista, Juliette, Zoé e Zélie. Al centro della tela, inginocchiato, il becchino: all’anagrafe, Antonine Joseph Cassard, figlio del calzolaio di Ornans. Spicca sul rosso dei due sagrestani che controllano il cerimoniale. Tutte persone reali, vignaioli, artigiani e l’amico violinista Alphonse Promayet ritratti uno a uno da Courbet in studio, non en plein air. Ma bianco nero e rosso sono, oltreché i colori primari dell’umanità, i colori alchemici della trasmutazione. Ed ecco, spettatore all’estrema sinistra della tela, il nonno di Courbet. Morto un anno prima. A Toledo un vivo tra i beati, qui un morto tra i vivi, pronto ad accogliere chi sta per essere interrato. Ma chi viene sepolto, in quella bara coperta di bianco, dove spicca una nera croce formata da tibie? Il nonno? La sorella di Courbet? O i valori della Rivoluzione repubblicana, rappresentata dai due personaggi in culottes accanto al cane?

Anche qui la potenza dell’arte trascende le intenzioni teoriche dell’artista, e, come nella tela del Greco, colore e composizione, linee e figure vanno al di là della realtà sensibile.

I toni spenti della terra sono interrotti da bianco e nero, che suonano all’occhio come i tasti di un pianoforte. E seguendo i due non-colori scopriamo che la tela è tagliata da un triangolo rettangolo: il cateto minore è marcato dal gruppo di ecclesiastici e portatori di bara a sinistra, e il vertice toccato rasoterra dal cateto maggiore è il cane sulla destra, presenza eccentrica e inattesa – bianco e nero anch’esso, non è un nobile pointer inglese, ma un più familiare ariégeois, segugio da caccia francese. Il centro della lunga e altrimenti inavvertita ipotenusa è segnato dalla figura bianconera del becchino, domestico Caronte che calerà la bara nella fossa.

E il cane, che sulla destra riprende il bianco e nero di ecclesiastici e becchino, non marca soltanto un parallelo cromatico: fra l’animale, che per le antiche religioni precristiane è tramite con il regno dei morti, e il prete che solo in terra può, nel nome del Dio crocifisso, legare e solvere, si stabilisce un legame fra i due mondi, il mondo visibile e quello invisibile. Proprio come fa l’arte, se grande, persino quando si autodefinisce realista.

Anche la malattia si può leggere come metafora. E, come tale, sfugge in parte al dominio della scienza.

Spero che questa dura prova serva, a noi italiani e più in generale all’umanità, per operare una rara e difficile alchimia: ragionare di testa, non di pancia; disgustarsi dei luridi siti di chi semina odio per professione; riconquistare una socialità che non può esaurirsi negli happy hour. Riscoprire valori che esulano dall’asfittico campo delle religioni e toccano la sfera del sacro: della sacralità della vita, tanto più preziosa quanto più soggetta alla morte. La vita nostra e di questo piccolo meraviglioso pianeta, granello di sabbia alla periferia estrema dell’universo, sì, ma il solo granello di sabbia a nostra disposizione.

IL LIBRO E L’AUTORE – Il racconto di Hans Tuzzi è parte dell’antologia ebook Andrà tutto bene (Garzanti), in vendita nei negozi online. L’intero ricavo della vendita dell’ebook (degli autori, dell’editore, del distributore e anche dei principali store online) sarà devoluto all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Fanno parte dell’antologia i racconti di 26 scrittori e scrittrici, che si sono uniti per questo progetto a scopo benefico, creando una raccolta di storie in cui raccontare loro vita al tempo del virus. I racconti portano le firme di Ritanna Armeni, Stefania Auci, Alice Basso, Barbara Bellomo, Gianni Biondillo, Caterina Bonvicini, Federica Bosco, Marco Buticchi, Cristina Caboni, Donato Carrisi, Anna Dalton, Giuseppe Festa, Antonella Frontani, Enrico Galiano, Alessia Gazzola, Elisabetta Gnone, Massimo Gramellini, Jhumpa Lahiri, Florence Noiville, Clara Sánchez, Giada Sundas, Silvia Truzzi, Ilaria Tuti, Hans Tuzzi, Marco Vichi, Andrea Vitali. I testi di Clara Sánchez sonotradotti da Enrica Budetta, i testi di Florence Noiville da Alessandro Mola.

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C’è chi ha voluto parlare delle sue giornate, delle routine consolidate, delle novità che strappano un sorriso. Delle lacrime che non si riescono a fermare ma anche della forza della natura che scioglie il nodo in gola. Di convivenze forzate, come di distanze dalle persone care che sembrano insormontabili. C’è chi racconta di vicini sconosciuti che non lo sono più e del lavoro che cambia nei suoi strumenti ma non nella sua sostanza. Alcuni ammettono l’errore di aver pensato che non poteva essere tutto vero o danno voce agli animali che invece sono felici che sia tutto vero. Altri affidano le riflessioni su questi strani giorni alla voce dei personaggi amatissimi che hanno creato. Tutti sono sicuri che usciremo più consapevoli di quello che è davvero importante e che ci incontreremo, ci abbracceremo e passeggeremo presto tutti insieme. Sono sicuri che la solidarietà sarà il valore che porteremo con noi senza poterne più fare a meno. Tutti loro sono convinti che le parole, i libri, le storie, uniscono. Creano vincoli invisibili che spezzano ogni barriera. Mentre leggiamo non siamo mai soli. E siamo forti. E tutto appare come sarà. Perché andrà tutto bene.

Hans Tuzzi è l’autore − oltre che di saggi sulla storia del libro e sul suo mercato antiquario, del romanzo Vanagloria (2012) e di Come scrivere un romanzo giallo o di altro colore (2017) − dei celebri gialli ambientati a Milano che hanno come protagonista il commissario, poi vicequestore, Norberto Melis: Il Maestro della Testa sfondata (2002 e 2016), Perché Yellow non correrà (2004 e 2016), Il principe dei gigli (2005 e 2012), Casta Diva (2005 e 2013), Fuorché l’onore (2005 e 2017), La morte segue i magi (2009 e 2017), L’ora incerta fra il cane e il lupo (2010 e 2017), Un posto sbagliato per morire (2006 e 2011), Un enigma del passato (2013), La figlia più bella (2015), La belva nel labirinto (2017), La vita uccide in prosa (2018), Polvere d’agosto (2019), La notte, di là dai vetri (2019). Tuzzi è anche autore della trilogia dedicata all’agente segreto Neron Vukcic, Il Trio dell’arciduca (2014), Il sesto Faraone (2016) e Al vento dell’Oceano (2017). A maggio tornerà in libreria con il suo nuovo romanzo, Nessuno rivede Itaca.

E INTANTO IN FRANCIA… – Il gruppo editoriale francese Editis, proprio ispirandosi all’iniziativa Andrà tutto bene ideata da GeMS, pubblicherà un ebook con 64 testi inediti di altrettanti autori del gruppo, i cui proventi saranno interamente devoluti alla fondazione Hôpitaux de Paris – Hôpitaux de France. Tra gli autori figurano nomi come Raphaëlle Giordano, Françoise Bourdin e Danielle Steel, che hanno voluto dare il loro contributo per sostenere gli operatori sanitari in prima linea contro l’emergenza covid-19. L’antologia, disponibile dal 16 aprile e pubblicata dalla casa editrice 12-21, si intitolerà Des mots par la fenêtre, “Delle parole alla finestra”, e ne faranno parte lettere, poesie, racconti che si ispirano ai principi di libertà, speranza e solidarietà. Per Michèle Benbunan, direttrice generale di Editis, questa iniziativa non è solamente un modo per unirsi allo slancio di solidarietà nei confronti degli operatori sanitari, ma anche un progetto che si augura possa portare speranza ai lettori e accompagnarli in questi giorni difficili.

Fonte: www.illibraio.it