Il biblista Maggi racconta: “Quando dissi a mio padre che da grande avrei voluto fare il ballerino…”

di Redazione Il Libraio | 23.03.2019

I PUGNI DEL BALLERINO

«Papà, da grande voglio fare il ballerino!»

«E io non voglio un figlio recchiò

E così, ancora prima di iniziare, finì la mia carriera di ballerino.

Era il mese di gennaio, nelle vie principali della mia città erano stati affissi i manifesti che annunciavano le iscrizioni per la scuola di danza classica, e io sentii che era quello che volevo e che mi piaceva fare.

Avevo undici anni e nutrivo un grande sviscerato amore per la danza, e ballavo continuamente su ogni musica possibile. Erano gli anni nei quali in Russia muoveva i primi voli verso il successo internazionale uno straordinario ballerino, che sembrava non conoscesse le leggi di gravità, Rudolf Nureyev. Sognavo di essere ballerino come lui, ma naturalmente il primo ballerino, non uno di fila, e sentivo che ce l’avrei fatta.

Questo amore per il balletto me lo sono portato dietro per tutta la vita e ogni tanto, quando posso, mi regalo uno spettacolo, e molti anni or sono allo Sferisterio di Macerata riuscii ad assistere anche a una straordinaria Giselle, con Nureyev e la Fracci, e a molti altri balletti anche al Teatro alla Scala di Milano.

Ma per mio padre ballerino era l’equivalente di recchiò, il termine dispregiativo con il quale ci si riferiva agli omosessuali, che in quegli anni non si chiamavano così, ma «invertiti», «pederasti», «terzo sesso». Io non sapevo che cosa significasse recchiò, ma dal tono di papà compresi che era qualcosa di disdicevole e vergognoso. Poi a scuola chiesi ai miei amici più istruiti in materia che cosa fosse un recchiò. La loro risposta mi fece arrossire dalla vergogna e l’argomento finì lì.

Ma non mi arresi. Passavo tutte le volte che potevo davanti alla scuola di ballo e mi fermavo anche solo per ascoltare il suono del pianoforte, per me magico e affascinante.

Poi, finalmente, in primavera, socchiudevano la finestrina del piano interrato, dove c’era la palestra, così potevo non solo ascoltare, ma anche sbirciare le lezioni di danza. C’era un uomo anziano, dalla testa candida, al pianoforte, e un’insegnante alta, magrissima, secondo me molto vecchia, con i capelli di un rosso acceso come le labbra, la sigaretta in un angolo della bocca e, per quel tempo una novità, indossava sempre pantaloni. Era lei che insegnava i vari movimenti e i passi, con molta severità, redarguendo spesso aspramente gli allievi. Restavo a osservare come ipnotizzato. Fu da quella finestrella che appresi i termini allongé, arabesque, brisé, il grand jeté, il salto che dava l’impressione di volare e che mi piaceva molto, e pliépiqué

Poi tornavo a casa e prendevo due sedie, le mettevo nel corridoio, sopra le sedie ci ponevo il manico della scopa a mo’ di sbarra, e via, mi esercitavo secondo quanto avevo potuto scorgere. Per la musica bastava la radio. E così con plié e piqué, danzavo, volavo, inciampavo, e cadevo. A mamma e papà, che non capivano tutte quelle piroette, dicevo che mi allenavo per la ginnastica a scuola. Ero così sincero nel mentire che mi credevano sempre, o almeno così mi sembrava.

Danzavo e sognavo, il ballo mi dava una sensazione straordinaria di libertà, era quello che desideravo, volare, poter volare, e volavo bene perché ero esilissimo. Mi sentivo proiettato verso l’alto, il problema era il rientro a terra, spesso violento e traumatico: quanti capitomboli, quante ginocchia livide, e quanti polsi doloranti, ma non mi arrendevo, non c’era caduta capace di fermarmi. Da sempre ho voluto essere libero e rivendicavo la mia libertà, spesso scontrandomi con le convenzioni del tempo, e ballare mi faceva sentire pienamente libero.

Poi un giorno decisi di fare da solo il grande passo. Ruppi il salvadanaio. Aveva la forma di un porcellino e gli ero affezionato, ma la passione per il ballo fu più forte dell’attaccamento al maialino. Raccolsi tutte le monetine… una fortuna: ben cinquecento lire, un tesoro! Mi recai con questi soldi alla scuola, suonai tutto tremante, e venne ad aprirmi proprio l’insegnante, che solo a guardarla metteva soggezione. Chiesi se ero ancora in tempo per iscrivermi, e soprattutto quanto costava… Non ricordo la risposta, so che rimasi tramortito, una cifra per me enorme, impossibile. Capii, e rimasi male, mortificato, ma per poco… Avevo un tesoro in tasca, e se non era sufficiente per iscrivermi alla scuola di ballo, lo potevo utilizzare in altri modi, così andai alla Standa, i grandi magazzini, e senza esitare comprai un fucile a schioppo che da tempo desideravo, poi andai in una pasticceria e mangiai un buon numero di paste. Deluso, ma gratificato.

Comunque mio padre, al fine di evitare ogni possibile negativa inclinazione nella mia persona, pensò poi bene di iscrivermi a una scuola sì, ma non di danza, bensì di pugilato.

Papà mi voleva bene, ma proiettava in me le sue ambizioni di sportivo, quell’atleta che lui, Cavaliere dello Sport, era stato, ma che io non ero e non volevo essere. Così mi costrinse a frequentare la palestra per imparare la boxe.

Non volevo assolutamente, ma mio padre fu duro e intransigente e mi trascinò alla palestra a forza di calci nel sedere. E così, per poco più di un anno e mezzo feci il pugile. La ginnastica preparatoria mi piaceva, in pochi mesi il mio fisico, molto esile, subì una profonda trasformazione, avevo un addome così robusto e forte che quando tornavo a casa dagli allenamenti mi stendevo supino per terra e la mia sorellina saltava sopra la mia pancia. Però come pugile non avevo la forza necessaria per colpire l’avversario, ero sempre piuttosto gracilino se confrontato a certi torelli che erano tutto muscoli. Per lo più operai, gli altri pugili erano persone certamente poco raffinate, però con una grande forza ed energia, e quando arrivavano i loro pugni erano dolori. Sembrava scaricassero così tutta la loro rabbia e le loro frustrazioni.

Avevo sedici anni, ero bellino, le amiche dicevano che assomigliavo ad Anthony Perkins, l’attore americano reso famoso con il film di Hitchcock, Psyco, e io facevo di tutto per assomigliargli, imitandolo nell’espressione degli occhi e nell’andatura dinoccolata. Ma ero anche molto vanitoso ed ero terrorizzato dall’idea di prendermi un pugno in faccia e di farmi rompere il setto nasale. Per questo sul ring giravo velocissimo, come una trottola, attorno all’avversario, sferrando, quando potevo, dei pugni (che non facevano granché male), cercando di evitare di prendere cazzotti in faccia: in ogni parte del corpo sì, ma non sul viso. Questa mia caratteristica di girare vorticosamente attorno all’altro pugile, disorientandolo, fece sì che, ironia della sorte, mi affibbiarono il nomignolo de «il ballerino».

IL NUOVO LIBRO – Dopo aver raccontato con candore e allegria dei giorni trascorsi tra interventi chirurgici, terapie e speranze in Chi non muore si rivede, il biblista Alberto Maggi risponde alle tante richieste dei lettori, curiosi di conoscere il resto della sua incredibile vita. Riprendendo così il filo interrotto dei ricordi, nel suo nuovo libro, l’autobiografico Due in condotta (sempre pubblicato da Garzanti), offre un ideale album di istantanee per scoprire aspetti inediti e sorprendenti dell’autore: il bambino ribelle in un’Italia del Dopoguerra più povera ma ricca di speranza, una scuola non sempre capace di contenere tutto il suo entusiasmo, le grandi letture adolescenziali, la scoperta dell’amore, i primi lavori da dattilografo, fino al riconoscimento della sua vocazione e alla scelta – in un primo momento osteggiata da una famiglia incredula – di diventare frate. Condividendo la sua storia con l’incontenibile gioia che lo contraddistingue e senza mai scivolare nella nostalgia, Maggi indica la strada per rispondere sempre con il sorriso alle difficoltà che ci impone la vita, per non arrenderci mai alle avversità e continuare sempre a combattere per i nostri sogni e per la felicità nostra e di chi ci sta accanto.

Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: il già citato Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vitaRoba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede)Parabole come pietreLa follia di Dio e Versetti pericolosi, L’ultima beatitudine – La morte come pienezza di vita Di questi tempi.

Qui tutti gli articoli scritti da Alberto Maggi (foto di Basso Cannarsa, ndr) per ilLibraio.it.

Fonte: www.illibraio.it