La luna illumina d’argento la stanza. Fran ha sedici anni e vuole fuggire da quelle mura, da sua madre che non si è mai occupata di lui. Nel piccolo sobborgo di Madrid in cui è cresciuto passa le sue giornate con l’amico Eduardo e sua sorella Tania, di cui è perdutamente innamorato. I due ragazzi non potrebbero essere più diversi da lui. Figli di una famiglia benestante, frequentano le scuole e gli ambienti più esclusivi. Eppure Fran sente che dietro quell’apparenza dorata si nasconde qualcosa. Quando Tania sposa all’improvviso un uomo dal passato oscuro, i dubbi si trasformano in certezze. Eduardo comincia a lavorare per il cognato e tutto cambia. È sempre più solitario e nulla sembra interessargli. Fran ha bisogno di sapere come stanno veramente le cose. Ma la risposta non è mai stata così lontana. Perché Eduardo gli consegna una chiave misteriosa da custodire chiedendogli di non parlarne con nessuno. E pochi giorni dopo scompare. Da quel momento Fran ha un solo obiettivo: deve sapere cosa è successo. Deve scoprire cosa apre quella chiave. Il suo amico si è fidato di lui. La ricerca lo porta a svelare segreti inaspettati. Lo porta su una strada in cui è sempre più difficile trovare tracce di Eduardo. Perché ci sono indizi che devono rimanere celati e a volte il silenzio dice molto di più di tante parole…
Torna nelle librerie italiane la spagnola Clara Sánchez , da anni in classifica con Il profumo delle foglie di limone. Garzanti propone La meraviglia degli anni imperfetti, un romanzo sulla forza e il coraggio di un ragazzo che scopre come tutto intorno a lui stia cambiando.
Su ilLibraio.it un capitolo, per gentile concessione dell’editore:
«Sì, siamo molto diversi», disse Edu, e riuscì solo a farmi barcollare leggermente quando tentò di atterrarmi imitando i giochi che facevamo qualche anno prima.
Eravamo sempre più diversi, soprattutto fisicamente, perché io, intorno ai sedici anni, mi stavo trasformando in un atleta. Ero soddisfatto dell’aspetto che stavano assumendo le gambe e le braccia, le spalle. Uno sforzo che facevo per Tania. Pensavo a lei quando salivo fino alla collina, poi andavo all’Híper e poi tornavo a casa con un po’ di nausea, vedendo di fronte a me, lì nella spianata, un enorme sole rosso che scendeva sui tetti di ardesia. I polmoni mi si stavano sviluppando come due bambini che crescono e hanno bisogno di spazio, e lo spazio si creava e mi si allargava il torace.
Un pomeriggio al tramonto, mentre correvo, la vidi dal finestrino dell’autobus. Era distratta. Mi colpì la sua serietà. E quella serietà quasi triste, che per un istante si era rivolta verso di me senza che lei mi vedesse, confondendosi con le tenebre rosse che si aprivano nel cielo, non riuscii a togliermela dalla testa per vari giorni. Perciò decisi di seguire i metodi semplici ed efficaci di Mister Gambe e un mercoledì presi l’autobus fino alla collina per non arrivare sudato e puzzolente e, con la mia tenuta sportiva, mi misi all’altezza della pensilina dove lei doveva scendere. Chiesi a tutti i santi e a tutti gli extraterrestri che arrivasse su uno degli autobus. E arrivò.
Avanzava verso casa sua con lo sguardo rivolto a terra o di fronte a sé, ma senza vedere. Era come certi che tornano a casa dopo il lavoro e non prestano neanche attenzione a dove sia quella casa. Potrebbe essere sulla luna e loro calpesterebbero diligentemente la polvere della luna verso il loro appartamento senza rendersi conto di ciò che stanno calpestando. Corsi piano fino ad affiancarla.
«Tania?»
«Sì?» Ci mise qualche secondo a riconoscermi. «Ah! Sei tu.»
«Eh sì. Ti ho visto scendere dall’autobus.»
Lanciò un’occhiata al mio completo di felpa con il cappuccio e pantaloncini neri. Non mi ero messo la fascia. Io sapevo di essere imponente, ma il suo sguardo indifferente mi fece diventare insicuro, non mi sentivo più così massiccio, perché lei mi considerava un bambino e, partendo da questo assunto, era incapace di apprezzare il mio corpo. Pensai che una donna giovane non fosse nelle condizioni di valutare correttamente un ragazzo più giovane di lei.
«La verità è che voi ragazzi cambiate di giorno in giorno.»
«Anche tu», le dissi.
«Ma non mi dire, in cosa sono potuta cambiare io?»
«Mi sembra che tu non sia più tanto felice.»
«Sì», rispose, e assunse un’espressione terribilmente seria. «Adesso ho problemi che prima non avevo.»
Davvero noi ragazzi più piccoli eravamo un disastro: lei trascinava con grande difficoltà il peso enorme di una cartella piena di libri e io le camminavo accanto bello fresco.
«Permettimi», dissi.
E camminammo per un po’ in silenzio. Quando arrivammo alla sua porta dominata dalla targhetta dorata e lucida che mi era tanto familiare, mi invitò: «Non so se ti fa piacere entrare. Non voglio interrompere il tuo allenamento. Non dovresti raffreddarti».
Era angosciosamente negativa.
«Mi farebbe piacere un bicchier d’acqua», le risposi.
«E allora non se ne parli più.»
Aprì con le chiavi la porta nera e mi sorprese che ci fosse ancora lo stesso odore della mia infanzia e la stessa penombra, e mi chiesi – non in quell’esatto istante ma più tardi, quando potevo pensare senza la pressione di quanto stava accadendo – come esseri della stessa specie che hanno più o meno le stesse abitudini possano impregnare le stanze delle rispettive case di odori tanto differenti, di atmosfere così diverse pur usando elettrodomestici e avendo mobili simili.
Ci spostammo in salotto e Tania disse che andava a rinfrescarsi un attimo e che sarebbe tornata subito. Mi sedetti e mi tolsi la felpa. Dallo studio arrivava il pianto di un cane e qualche sporadico latrato. La domestica mi chiese se volevo un po’ d’acqua, ma le risposi che preferivo una birra. Avrei fumato volentieri una sigaretta.
Me la portò Tania stessa che, si vedeva, si era lavata la faccia.
«Mi hai beccato in una giornata proprio brutta. Mi sono appena lasciata con il mio fidanzato.»
«E allora forse non è così brutta», dissi senza sapere cosa stavo dicendo, ma a lei sembrò buffo.
«Credo che ti farò compagnia con la birra.»
Mentre beveva, riprese: «Fumerei una sigaretta, ma mia madre è allergica al fumo e, anche se è dall’altra parte della casa, sentirebbe l’odore e starebbe male».
Tania fermò lo sguardo sulle mie ginocchia con curiosità, ma in fondo con indifferenza. I muscoli non dovevano attirare la sua attenzione, visto che li aveva anche lei. Le si vedevano sotto la stoffa aderente dei pantaloni. In ogni caso, in poco tempo, la faccia le si era smagrita e adesso gli occhi sembravano più grandi, due abissi sul suo visino. Non riuscivo a immaginare che potesse esistere una ragazza che mi piacesse più di lei. Si tirò indietro i capelli con la mano.
«Magari hai ragione tu ed è stato davvero meglio così. Dovrebbe essere più facile dimenticare, non trovi?»
«Sì», dissi, «dovremmo avere un controllo maggiore sulla memoria.»
Mi guardò molto interessata. «Lo pensi davvero?»
Intuii che le piacevano i discorsi profondi: «La nostra capacità di comprensione è incredibilmente grande, ma la applichiamo a cose piccole. Concentriamo le nostre grandi doti di osservazione e interpretazione su aspetti ridicoli, per i quali basterebbe solo un’occhiata. È questo che si intende quando si dice “impelagarsi”. Giorni e giorni a rimuginare su cose ovvie, su ciò che è stato e che non può essere in un altro modo. La nostra mente non controlla la nostra mente. È questa la cosa veramente terribile. Qui sta la sfida dell’umanità».
«Sembri più grande della tua età. Sei veramente diventato già maturo. Si capisce che tutto ciò che dici è frutto delle tue riflessioni. Mi piacciono le persone che riflettono. Eduardo, che è il genio della famiglia, si basa più su ciò che sente e ciò che legge. Non è come te. Tu sei sensibile.»
Si era fatto buio. «Se vuoi, puoi fumare in giardino. Ti accompagno», le dissi.
Non fumai, perché uno sportivo non deve farlo e d’altro canto non avevo l’abitudine, ma in quel momento la sola idea di essere con Tania e di trovarmi a casa sua mi aveva fatto venire voglia di fumare. Rimasi a guardare il cielo. Non c’erano ancora molte stelle. La luna era piuttosto bassa e insolitamente grande. Si appoggiava sul centro commerciale in costruzione, verso il quale scivolavano le villette, i giardini e gli alberi di quel lato della collina.
Le indicai il tetto di casa sua: «Guarda, Venere è proprio sopra questa casa».
«Sembra che l’abbia scelta, non è vero?» disse. «Mi sono innamorata di un uomo più grande di me di vent’anni. Ho creduto che l’età non avesse importanza.»
«E invece ce l’ha?»
Avevo freddo alle gambe. Sopra portavo la felpa, ma sulle gambe nude avevo la pelle d’oca. Così mi sembrò un’eternità il tempo che ci mise a rispondere.
«Ho sempre sentito dire che non ce l’ha, che l’amore è più importante di tutte le differenze, eppure l’amore è una cosa tra due persone reali con differenze reali e, se devo essere sincera, credo proprio che queste abbiano importanza, e anche molta.»
Rimase assorta. Prima di comunicarle che dovevo andare via, pensai bene a come farlo. Me lo scrissi mentalmente.
«Senti», dissi, «adesso devo andare, ma io passo correndo di qui tutti i giorni più o meno all’ora in cui sono passato oggi; se ci becchiamo di nuovo potremmo continuare questa conversazione. Sì, insomma, se a te va e se non hai niente da fare.» E poi tirai fuori una banalissima frase fatta: «Non capita tutti i giorni di avere la possibilità di parlare con qualcuno come te, normalmente è tutto molto ordinario e noioso».
Pensai che alla fine avevo fatto una gaffe, che mi ero lasciato scoprire. Ma, con mia grande sorpresa, la vidi sorridere.
(continua in libreria…)
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Fonte: www.illibraio.it