In quel fine ottobre del 1929, sferzato dal vento e da una pioggerella fastidiosa e insistente, a Bellano non succede nulla di che. Ma se potessero, tra le contrade volerebbero sberle, eccome. Le stamperebbe volentieri il maresciallo dei carabinieri Ernesto Maccadò sul muso di tutti quelli che si credono indovini e vaticinano sul sesso del suo primogenito in arrivo, aumentando il tormento invece di sciogliere l’enigma, perché uno predice una cosa e l’altro l’esatto contrario. Se le darebbero a vicenda, e di santa ragione, il brigadiere Efisio Mannu, sardo, e l’appuntato Misfatti, siciliano, che non si possono sopportare. E forse c’è chi, pur col dovuto rispetto, ne mollerebbe almeno una al giovane don Sisto Secchia, il malmostoso coadiutore del parroco arrivato in paese l’anno prima, e che sembra un pesce di mare aperto costretto a boccheggiare nell’acqua chiusa e insipida del lago. E poi ci sono sberle più metaforiche, ma non meno sonore, che arrivano in caserma nero su bianco. Sono quelle che qualcuno ha deciso di mettere in rima e spedire in forma anonima ai carabinieri, forse per spingerli a indagare sul fatto che a frequentare ragazze di facili costumi, in quel di Lecco, è persona che a rigore non dovrebbe. D’accordo, ma quale sarebbe il reato? E chi è l’autore di quelle rime che sembrano non avere un senso? Ma, soprattutto, di preciso, con chi ce l’ha?
Ficcando il naso tra le beghe e i segreti della sua Bellano immaginaria e realissima al tempo stesso, in Quattro sberle benedette Andrea Vitali apparecchia un altro appetitoso banchetto letterario, confermandosi autore prolifico di storie e di invenzioni come pochi altri, per la gioia e il godimento del lettore.