La poesia di Bandini orbita innanzitutto intorno a una città, nominata con il palindromo Aznèciv: è il luogo della vita, ma
anche il suo doppio, il luogo cui lo sguardo ritorna dopo aver spaziato oltre le mura, dopo aver esplorato un altrove che è insieme storia e sogno.
In queste liriche s’intersecano e si frangono dunque piani diversi dell’esperienza, per condensarsi in immagini e trovar forme rigorose ma variegate e all’apparenza divergenti: perché ormai, attraversato il Novecento, con la sua feroce distruzione e ricostruzione di mondi, è sempre più difficile trovare le parole che possano render conto dei nodi dell’esistenza con la giusta essenzialità e precisione. Ecco dunque incrociarsi e rispondersi, tra battimenti e interferenze, insieme alla lingua anche il dialetto e il latino e con loro le nostalgie di un’epoca in cui la parola poetica ancora poteva avere la forza delle cose e della verità.
Il confronto aperto con la realtà e le sue convulsioni, e insieme il suo conflagrare con il dato autobiografico e quotidiano, trovano un contrappunto nell’osservazione e nella puntigliosa nominazione della natura: non tanto come pulsione regressiva
verso un edenico stato naturale, ma proprio nella loro capacità di diventare simboli a cospetto della modernità che li assedia,
in un accostamento che ne fa altrettanti emblemi d’estraneità, quasi a indicare impossibili vie di fuga.
Modulato sul basso continuo d’una nota di struggente malinconia, a far da contrappeso a una visione pragmatica e insieme
disperata dell’uomo, Dietro i cancelli e altrove traccia così una sorta di bilancio di un uomo e d’una generazione poetica, delle
loro fedi e delle loro speranze: un punto d’arrivo, certo, ma dal quale possiamo forse provare a ripartire.
