«È difficile imbrogliare un traduttore, che è insieme uno scrittore e un vivisezionatore del testo.» In questa definizione, che eleva a forma d’arte e a esercizio critico la sfida di ricreare un’opera letteraria in una lingua diversa da quella d’origine, è racchiuso il senso profondo dell’esperienza di Claudio Magris come traduttore. Ad affascinare lo scrittore triestino è stata soprattutto la versione di classici del teatro, con testi nati quasi sempre in funzione di un allestimento, attenti alla dimensione fisica della scena, alla recitazione e alla gestualità degli attori. La battuta teatrale, diretta, immediata, esige un cortocircuito fra l’originale e la traduzione, un confronto ravvicinato, inevitabilmente spietato. Dall’adorato Ibsen, spartiacque della drammaturgia moderna, al caustico Schnitzler, critico impietoso della finis Austriae, alla Medea di Grillparzer, che fonde trame arcaiche e atmosfere borghesi, passando per il Woyzeck di Büchner, con le sue sciabolate che tagliano la parola e l’esistenza, il lavoro di Magris sui testi teatrali si è rivelato un autentico laboratorio creativo in cui sperimentare nuove forme di scrittura. Da questa esperienza è scaturita anche una messa a fuoco del ruolo del traduttore: un po’ complice e un po’ rivale, disposto a piccole infedeltà materiali in nome di una fedeltà di sostanza capace di restituire il ritmo e l’essenza più vera di un’opera. Per la prima volta raccolte in un unico volume, le versioni per il teatro del grande germanista costituiscono un appassionato omaggio a un’arte impossibile ma necessaria, un’arte che in fondo, nel suo inesauribile tentativo di afferrare un senso sempre sfuggente, assomiglia molto alla vita.
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