Introduzione di Silvano Sabbadini
Traduzione e note di Riccardo Mainardi
Vanity Fair (1848), l’opera cui Thackeray deve la fama, è costruito intorno alle storie parallele delle due protagoniste femminili: la spregiudicata Becky Sharp, avventuriera senza scrupoli disposta alla simulazione e al raggiro per crearsi una posizione nel mondo, e la virtuosa quanto insipida Amelia Sedley, destinata a una vita di rinunce e sottomissione nonostante sia cresciuta nell’agio. Prosperità del vizio e disgrazie della virtù, sembrerebbe a tutta prima la lezione del romanzo. Ma intorno a queste due figure l’autore raduna una folla di indimenticabili personaggi e caratteri, una rutilante fiera di comparse in cui ognuno esibisce ciò che possiede: ricchezza, potere, manie, meschinità. Perché, come recita il sottotitolo, il capolavoro di Thackeray è in verità un «romanzo senza eroe», uno straordinario affresco satirico della società inglese del primo Ottocento, una grottesca commedia umana in cui nulla e nessuno sfugge allo sguardo cinico del narratore che condanna l’ipocrisia degli aristocratici ma, rispettoso delle convenzioni della società vittoriana, anche l’arrivismo dei parvenu e l’ambizione senza scrupoli di chi si ribella alla morale corrente.