Verbale è il rendiconto di una nuova tappa verso quella sua laica "noche oscura" dove principio e fine (agostinianamente) s'incontrano e si confondono, in un reciproco scambio di ruoli e di identità e a dispetto di ogni tentazione consolatoria. Ranchetti esorcizza ogni atteggiamento retorico (l'invocarla come il temerla) verso quella nostra finale e fatale mèta che un grande etnologo come Ernesto De Martino definiva "crisi della presenza". E del resto "Io come il ragno tesse/ la sua tela traendola/ da sé da sé ed essa/ è per lui nido territorio e arma e per altri morte/ così ciò che da me/ proviene è solo/ altra forma del corpo/ e della mente nella crescita/ del puro delirio".
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